Referendum, parlano studiosi e prof universitari:
«Renzi e De Luca sconfitti, le ragioni del No»

Referendum, parlano studiosi e prof universitari: «Renzi e De Luca sconfitti, le ragioni del No»
di Carla Errico
Giovedì 8 Dicembre 2016, 19:29
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Ha vinto il No. Prima e più del fronte del No. La sconfitta del Sì è segnale di disagio e urgenza di rappresentanza e di sovranità popolare. Prima e più che uno schiaffo a Renzi o a De Luca. Salerno, Campania, Italia. Ecco, secondo chi la politica la studia e la insegna, il messaggio e lo scenario aperto dal referendum.
«Un voto politico. La riforma costituzionale c’entra poco. La lettura di un no così massiccio è elementare: è il disagio, la crescente sfiducia dei giovani e dei non rappresentati dinanzi alle chiacchiere di Renzi». Massimo Cacciari, filosofo e accademico, non è uno che le manda a dire. Nè al premier, nè al governatore della Campania. «Figure di m... pazzesche», definisce le ormai celeberrime frasi sulle fritture di pesce da offrire ai votanti. «Sovraesposizione, sovrachiacchiera, sovratutto: la gente ormai non ne poteva più», dice di Renzi come di De Luca. E l’appello all’umiltà del secondo, dopo la sconfitta, è «da morire dal ridere». «Sarebbe meglio che ora ragionino. Che capiscano che non si può più scherzare, che la crisi della democrazia è radicale». Che fare? Per Cacciari non resta che «andare votare il più presto possibile. Un quarto governo tecnico nella stessa consiliatura sarebbe una sospensione della democrazia mai vista prima».
Per Aurelio Musi, politologo e scrittore partenopeo oltre che prof all’università di Salerno, è ozioso chiedersi se sia stato sconfitto più Renzi che De Luca. «Tutti e due», avverte. E ragiona: «Sicuramente il dato politico nazionale ha avuto riflessi sulla Campania. Epperò il successo del No denota anche errori compiuti a livello locale. Mi ha colpito molto il fatto che De Luca non sia andato alla famosa inaugurazione dell’albero a Salerno: che l’abbia fatto per resipiscenza tardiva o perchè gliel’abbia chiesto Renzi, il quale si dev’essere accorto dell’effetto disastroso che avrebbe avuto, completando l’effetto della famosa riunione con i 300 sindaci». Fritture di pesce a parte, Musi legge in entrambi i leader Pd i segni di «una tardiva marcia indietro rispetto all’eccessiva personalizzazione del confronto. Troppo tardi, gli elettori non hanno apprezzato anzi l’effetto è stato controproducente». Tra Renzi e De Luca i rapporti potrebbero ora incrinarsi: «De Luca - dice Musi - continua ad avere uno zoccolo duro di consenso, non scalfito dal flop del referendum. Ma forse qualcosa si è inceppato nel rapporto con la segreteria del partito. Il pregiudizio favorevole motivato dal consenso nei confronti di De Luca rischia di venir meno. Era un rapporto strumentale, motivato dalla realpolitik. Il governatore potrebbe non godere più di grandi sostegni nel gruppo dirigente del Pd». Il punto di forza, però, è che «De Luca continuerà a trovarsi di fronte un Pd totalmente inesistente in Campania». A cospetto del «De Magistris vero fatto nuovo» della scena politica locale, Musi registra «la fine del Pd in Campania». «I maligni dicono che a De Luca non dispiaccia. Ma non può fidare solo sui grandi elettori, gli industriali, quelli a cui ha promesso un sacco di soldi».
Anche secondo Pino Acocella - salernitano e prof universitario a Napoli, parti invertite rispetto a Musi - «i rapporti Renzi-De Luca sono di fatto già modificati. Erano costruiti sulla scommessa del cavallo vincente: Renzi portava benefici alla Campania, De Luca i pacchetti di voti pesanti in termini congressuali ed elettorali. Ora si è rotto un legame di convenienza. Difatti il sindaco Enzo Napoli ha già detto che ha perso Renzi». Ma se De Luca ha sbagliato - «non ha giovato l’esaltazione del clientelismo» - «di fronte al gioco alto della difesa della Costituzione gli elettori hanno mostrato di fregarsene anche dell’appartenenza». Insomma il dato vero, che ha sorpreso Acocella stesso, è un altro: «La valanga dei No dice che il popolo elettore ha sentito minacciata la sua sovranità elettorale a favore di una concezione oligarchica del potere. L’operazione referendaria era una restituzione del potere agli “arcana imperii”. Lo schieramento del No ha contribuito a rendere più caldo il confronto, ma a vincere è stato il rifiuto dell’oligarchia. In Campania e a Salerno, dove il gruppo deluchiano si è speso ventre a terra, dove persino la gestione della sanità privata ha denotato un uso delle risorse pubbliche quantomeno singolare, il fatto che la gente abbia votato “a prescindere” rivela un significato più profondo: una riappropriazione, più coscienza. Un buon segno di democrazia. Il caso Alfieri è emblematico: se prendi l’88% alle amministrative e il 30% al referendum vuol dire che il rapporto con gli elettori non funziona». È dal rapporto con l’elettorato che la politica deve ripartire, avverte Acocella. Perchè la valanga di No va oltre «il fronte rappresentato dal centrodestra più Sinistra Unita, il popolo elettore non gli appartiene». E perchè lo studioso non vede dopo il voto «chi possa incanalare questa nuova esigenza di rappresentatività, non credo il Movimento CinqueStelle». Ben venga allora, è l’auspicio di chi è stato candidato sindaco contro di lui, il «bagno di umiltà predicato da De Luca».
A Francesco Amoretti, docente di scienze politiche all’ateneo salernitano, non piace nè «fare di De Luca un capro espiatorio» nè «dare tutta la responsabilità a Renzi». «È stata una campagna nazionalizzata e il presidente del Consiglio ha caricato su di sè le aspettative, per cui le istituzioni locali c’entrano poco, De Luca avrebbe potuto fare il miglior discorso del mondo ma non avrebbe inciso piuù di tanto». Il nodo vero, per Amoretti, è «un clima diverso, una spinta profonda non capita dai politici». Il No è stato un «voto politico, espresso dal Mezzogiorno, dai giovani, dai ceti più disagiati. In condizioni di certezze difficili, forse anche la Costituzione è stata percepita come un baluardo a difesa dell’identità smarrita». Non si tratta di anti-politica o populismo, bensì della risposta di «un Paese che fa fatica a risollevarsi», che «assegna la priorità alle condizioni materiali di vita», e dinanzi al quale la politica non ha fatto i conti: «Non basta dire che abbiamo lo 0,2% in più, somiglia a quel che fece Berlusconi nel 2010». Non vede Renzi al capolinea nè De Luca all’inizio del declino, Amoretti, ma avverte che ora si apre una partita dagli esiti incerti. «Accanto alla governabilità bisogna restituire rappresentanza a chi non ne ha. La frattura, le formazioni che intercettano il malessere vanno capiti: altrimenti la democrazia è destinata a perire».
Anche Domenico Fruncillo, studioso e prof di scienza politica all’Unisa, non vede «crisi di leadership» bensì «maturità degli elettori». Sul Manifesto di ieri, insieme al collega bolognese Valbruzzi, ha parlato di «referendum sociale». Al Mattino aggiunge: «Più che la Costituzione ha potuto l’insoddisfazione». Il voto pretesto per esprimere disagio, ma un voto pur sempre «intelligente». «C’è stata - argomenta Fruncillo - una elevata partecipazione, inusitata per consultazioni del genere. Ha funzionato una mobilitazione drammatizzante: gli argomenti utilizzati, dal crollo dei mercati all’ingovernabilità, hanno spinto tutti a sentirsi interpellati». Ma il secondo step, il passo nell’urna, ha visto «gli elettori esprimersi sul quesito referendario, bocciandolo sul merito e nei contenuti». E dinanzi a questo scenario totalizzante, l’aspetto locale è risultato secondario: «De Luca si è speso, ma dinanzi ad un trend nazionale non c’è leader locale che tenga». La conclusione è speranza e monito: «Gli elettori sono maturi, aspettano risposte. Altrimenti continueranno a costruire decisioni avverse all’establisment».
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