Geolier a Sanremo 2024: «Riporto Napoli al festival: è la mia vittoria»

«Il mito Pino Daniele suggeriva di ascoltare o groove. Se non si capisce chello ca' dico c'è il suono, lingua comune»

Geolier
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Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Venerdì 19 Gennaio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 20 Gennaio, 07:21
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Secondo gli allibratori, Geolier - alias Emanuele Palumbo, 23 anni da Secondigliano, artista più venduto in Italia del 2023 - è il favorito del prossimo Festival, nonostante canti «I p'me, tu p'te» in un napoletano strettissimo. «Ma io, proprio per questo, ho già vinto», sorride lui: «Riportare la mia lingua all'Ariston è lo scopo che mi prefiggevo. Avevo detto che volevo andare al Festival solo in dialetto e l'ho fatto».

La produzione di Michelangelo ha condito il tuo flow veracissimo in salsa elettronica, con cassa dritta.
«Il brano è nato di pancia, appena mi hanno detto che per Amadeus potevo usare il napoletano. Lazza ha aperto la porta a me, io spero di aprire la porta ad altri rapper, anche partenopei: sogno di vedere Guè o Marracash al Festival. I big dell'hip hop oggi sono i big della canzone italiana».

«Nuji simm doje stelle ca stann precipitann»: racconti la fine di un amore nel tuo dialetto contrattissimo, senza aferesi e con poche vocali, difficile da capire anche per molti concittadini, eppure ascoltatissimo e amatissimo in tutt'Italia.
«Credo che a un certo punto il massimo dell'amore sia smettere, non far deflagrare un rapporto ci si era costruito con affetto, tenerezza, sincerità, sesso, rispetto, reciproca conoscenza. “Io per me e tu per te” vuol dire che è meglio che ognuno se ne vada per la strada sua».

Una canzone sulla separazione. I rapper sono spesso accusati di non rispettare, a dir poco, le donne.
«Il rispetto è importante, se siamo stati maschilisti dobbiamo evitarlo in futuro, ma bisogna distinguere gli stereotipi del genere dalla sostanza.

Il messaggio per me è importante, io mi sento un po' un giornalista: scendo in strada e racconto quello che succede. E mio padre mi ha insegnato a vedere il finale dei film: quelli di mafia mostrano sempre i soldi che fanno, ma alla fine c'è sempre un morto o un carcere. Non credo, però, che l'hip hop, l'arte in genere, abbia responsabilità educative: io ho imparato sbagliando e vedendo le persone sbagliare, solo così ho capito cosa non dovevo fare».

Come ti senti nei panni del favorito?
«Quello che volevo fare ormai l'ho fatto. Ma ho una responsabilità, rappresentare Napoli con la lingua che usano oggi i ragazzi, e che, come al tempo delle canzoni partenopee classiche - e chiedo scusa se nomino il gigante Salvatore Di Giacomo - torna ad essere la lingua della canzone italiana. Napoli ha sempre seminato, adesso stiamo finalmente raccogliendo i frutti. Porterò con me in Liguria una foto di Napoli per ricordarmi perché lo sto facendo».

Un verso in italiano però c'è: «E tutto quello che ho perso, non posso fare nient'altro». Te l'ha chiesto Amadeus?
«No, mi è uscito spontaneo, sono italiano anche io».

A proposito: e se qualcuno non capisce il testo?
«Il mito Pino Daniele suggeriva di ascoltare o groove. Se non si capisce chello ca' dico c'è il suono, lingua comune».

Chi sono i tuoi maestri sul fronte della napoletanità?
«I Co'Sang con il loro rap, la loro poesia cruda. Ma devo molto al sentimento di Pino Daniele, alla schiettezza di Massimo Troisi, alla melodia di Gigi D'Alessio, allo slang di Alessandro Siani. Ho imparato da tutti, neomelodici compresi».

Napoli impazza anche in tv.
«Ne sono contento, sono un fan di Gomorra come di Mare fuori, ma Napoli è molto di più, non è solo criminalità organizzata e violenza. È grande bellezza, poesia, sentimento, solidarietà, voglia di non essere omologati».

Oggi tutti cantano in napoletano, anche Madame, anche Angelina Mango.
«Mi fa piacere. Lucio Dalla sognava di rinascere napoletano. E ha scritto Caruso».

Torniamo agli stereotipi del rap, al maschismo, agli status symbol ostentati, ai dissing, alla gara a chi ce l'ha più lungo.
«Dissing non me ne fanno, sono il migliore. Per il resto... io non giro per il quartiere in Ferrari: non mi serve, mi sentirei fuori luogo. Magari la noleggio per girare un videoclip, come un paio di Rolex, ma resto Emanuele di Secondigliano. Forse sono diventato una bandiera, ma in principio ero un ragazzino che voleva rappare, che ha capito che voleva fare questo mestiere vedendo un film con 50 Cent, Get rich or die tryin'».

Oggi sei un numero uno, vali milioni di euro.
«Lo so, e so che se cado io il problema è di tanti, dietro di me ci sono tante famiglie che lavorano con me e per me».

Porterai con te anche la «famiglia» degli Slf? Mv Killa, Yung Snapp, Vale Lambo, Lele Blade?
«Stanno già là. Mi hanno detto: “Guarda che abbiamo già fatto i biglietti”. Ma accanto a loro ci sarà tutta la scena».

A proposito, venerdì 9 febbraio con chi duetti? E cosa duetti?
«Non si può dire, ma di sicuro non “Napule è”: sarebbe stata una responsabilità troppo grande per un giovanotto come me. Diciamo che farò un medley di brani più vicini alle mie radici».

Un uccellino mi dice che con te ci saranno Luche', Guè e Gigi D'Alessio e che i primi due arriveranno con un hit personale, il terzo duetterà con te con Chiagne, il brano con Lazza che avevi pensato di proporre l'anno scorso al Festival.
«No comment».

Porti non solo Napoli, ma anche e soprattutto Secondigliano, Scampia, le Vele, Gomorra, nella terra dei cachi.
«Già a 8-9 anni lavoravo nella fabbrica di lampadari di mio fratello, facevo il cottimo a casa. La strada l'ho vista anche se non mi ha mai risuccchiato. La musica era il mio rifugio, la mia bolla. Oggi il mio obiettivo è usare l'hip hop anche per creare un futuro a chi non ne avrebbe altro se non la strada. E dove porta la strada».

Il successo stanca?
«No, stanco è il muratore che si rompe la schiena, non io che rappo, che rispondo a te, che mi faccio i selfie con chi lo chiede. Certo, Troisi diceva che i napoletani si sentono proprietari di quello che esce da Napoli, ed è così. Ma mi piace».

Ti racconterai in un documentario?
«Me l'hanno chiesto, come un libro, ma vorrei avere qualcosa di più da raccontare».

Intanto, aggiungi una terza data al Diego Armando Maradona, il 21 giugno, dopo i sold out del 22 e del 23. Nessun artista - napoletano, italiano, internazionale - ci è mai riuscito.
«Lo vedi che ho già vinto? Dedico il mio Festival a tutti quelli che hanno creduto in me. Ma non parliamo di concerti, piuttosto di feste: a Napoli, per Napoli e con Napoli».

A proposito: se vinci vai all'«Eurovision»?
«Sarebbe bellissimo portare in Europa il napoletano, lingua più musicale dell'italiano».

Hai citato Daniele, Troisi, D'Alessio, tutti costretti a seguire l'Eduardo di «Fujitevenne», a lasciare Napoli.
«Era un altro periodo. Io respiro la mia città, senza non sarei più Geolier».

Dove ti schieri politicamente?
«Non mi schiero. La politica ha deluso noi ragazzi, come la religione».

Ma è vero che per Sanremo state pensando di mettere dei maxischermi a Napoli?
«Sì, ci stiamo pensando». 

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