Marcell Jacobs: «Vinco di nuovo alle Olimpiadi e poi volo nello spazio». L'atleta lascia Roma e si trasferisce negli Usa

Il campione dei 100 racconta i suoi progetti

Marcell Jacobs: «Vinco di nuovo alle Olimpiadi e poi volo nello spazio». L'atleta lascia Roma e va negli Usa
Marcell Jacobs: «Vinco di nuovo alle Olimpiadi e poi volo nello spazio». L'atleta lascia Roma e va negli Usa
di Pietro Cabras e Benedetto Saccà
Lunedì 23 Ottobre 2023, 00:11 - Ultimo agg. 24 Ottobre, 09:06
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Ottobre romano, luce di mezzogiorno a dilagare sullo stadio “Paolo Rosi”. Un ragazzo si allena tra i ragazzi. Lui, però, è il più veloce del mondo. E vuole conquistare la Terra e la Luna. 

Marcell Jacobs, tra una settimana, si lascerà Roma alle spalle e partirà per gli Stati Uniti: Jacksonville, Florida. Con il nuovo tecnico Rana Reider comincerà l’avvicinamento alle Olimpiadi del 2024.
«Sì, parte ora la mia volata per Parigi, comincia il conto alla rovescia. Saranno tre gli appuntamenti principali da qui a luglio: i Mondiali di staffetta alle Bahamas a maggio, e sarà l’unico modo per qualificarsi per i Giochi, poi gli Europei di Roma a giugno e le Olimpiadi a luglio».

Sarà il nostro portabandiera?
«Rimarrebbe più impresso di una medaglia, forse. Ricordo che prima di Tokyo ero andato con Jessica Rossi dal nostro capo delle Fiamme Oro. Io e lei. E lei era la portabandiera in Giappone. Mi immaginavo: “Wow, chissà come è vincere le Olimpiadi e essere il portabandiera”. Potrebbe essere il coronamento. Adesso non ci penso, è il sogno di chiunque. Ma dovrei battere Tamberi, sì. Lui è avanti, ma se lo meriterebbe. E anche Paltrinieri. Se non mi tocca questa volta, sarà a Los Angeles nel 2028».

Che cosa troverà in America?
«Il mio amico e assistente Andrea Caiaffa e mia mamma sono appena stati a Jacksonville per vedere come è l’organizzazione, parlare con il mio nuovo allenatore Rana Reider. Lui è un fanatico di atletica, preparatissimo e attento a tutto. C’è un assistant coach che dà gli esercizi, Rana fa il supervisore. Se si ha un problema fisico o qualcosa di bloccato, subito c’è un fisioterapista pronto. Mia mamma verrà spesso a trovarmi, anche se in Italia le ho lasciato tanti impegni, compresa l’Academy che abbiamo creato a Desenzano del Garda. Sarebbe bello poter coinvolgere tanti sport. Un’Academy tipo Valentino Rossi? Siamo ancora all’1% di quello che ha fatto lui, ma l’idea è quella».

Ha chiesto consigli su Jacksonville?
«Ho parlato con De Grasse, campione olimpico dei 200 metri, abbiamo da sempre un ottimo rapporto. Quando gli avevo anticipato che mi sarebbe piaciuto l’idea di andare lì ad allenarmi, era molto contento, mi ha detto: “Vieni qua, troverai tutto, ci potremo stimolare a vicenda”. Reider lo conoscevo già, è un nome importante: si pensi che dal 2004 a oggi, a ogni Olimpiade, ha portato a casa sempre un oro con un suo atleta. Esperienza ne ha parecchia. La scelta? Io seguo molto le mie sensazioni: ho fatto una videochiamata, era positivo, preparato. Aveva già in mente quello che avrebbe voluto farmi fare e questo mi è piaciuto. Promesse? Mi ha detto: “Alleniamoci bene come dobbiamo e poi fai 9”80 agli Europei di Roma e 9”70 a Parigi”. Questo sarebbe un ottimo obiettivo».

Marcell, lei è nato in America: un ritorno alle origini, in un certo senso.
«Devo andare a scoprire proprio quell’americano che non mi sento dentro. Non andrò in Texas, lì ci sono soltanto nato. I parenti li ho tutti a Jacksonville, dove andrò, in Georgia e Florida. Ho gli zii, mia nonna Claudia, la sorella di mio nonno e suo marito. Io sono nato negli Stati Uniti, ci sono tornato nel 2008, a 14 anni per una riunione di famiglia, allora siamo andati a DisneyWorld a Orlando, e poi loro sono venuti al mio matrimonio dello scorso anno. Per casualità abitano tutti lì intorno e andrò ad allenarmi a pochi chilometri da loro. Non è stata una scelta precisa, la mia. Riabbraccerò quel mondo che non ho mai vissuto. Lì ognuno si fa i fatti suoi, starò in pace. Sarà un anno in cui non potrò sbagliare niente, dedicherò anima e corpo a quello che è giusto fare».

Perché ha cambiato l’allenatore?
«È successo molto velocemente. Io sono un atleta che cerca di trovare il massimo e il meglio sempre per crescere. Non mi accontento mai. Però, visti gli ultimi due anni in cui ci sono stati sempre dei problemi – al di là dell’aver vinto alcune medaglie – e in cui non mi sono sentito veramente me stesso, sapevo di valere molto di più e di poter portare a casa di più. Non pensavo a un cambio, però sono arrivato a un certo punto in cui mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: c’è qualcosa che non va. Anche ad andare in campo non sentivo più quello stimolo, mi mancava qualcosa, avevo bisogno di un confronto quotidiano con atleti che mi potessero aiutare a sprigionare tutti i miei cavalli. Avevo bisogno di cambiare. Come quando dal salto in lungo abbiamo deciso di cambiare per i 100 metri, era una scommessa perché nel lungo ero un atleta forte, ma due anni dopo abbiamo vinto le Olimpiadi sui 100».

Qual è il rapporto con il suo ormai ex tecnico Paolo Camossi?
«Ci siamo scritti alcuni messaggi, mi ha fatto gli auguri per il compleanno il 26 settembre.

Ancor prima che scegliessi l’America, mi aveva consigliato di trovare un coach che sapesse sfruttare al massimo le mie doti. Ma per lui ci sono sempre, gliel’ho detto. Mi farà piacere incontrarlo, andarci a cena».

La seguirà la famiglia?
«Adesso parto io, valuterò delle case, poi verrà Nicole perché le decisioni finali spettano alle mogli... Una volta sistemato tutto, mi raggiungerà con i bambini. Il campus di Jacksonville non l’ho visto dal vivo, solo qualche video. È una struttura importante, ha tutto ciò di cui abbiamo bisogno per allenarci».

 

Il cambiamento è una cifra del suo carattere?
«Sono molto predisposto per questi cambi, non mi spaventano, anzi, mi stimolano e mi piace tanto l’idea di stravolgere la mia vita. Mi sento un uomo del mondo perché, in qualsiasi posto vada, ci vivrei e mi sentirei a casa. Sì, credo che il cambiamento sia una parte importante della vita. Perché ti porta a migliorare, a fare esperienze nuove, a non rimanere sempre nello stesso ambito, con le stesse persone, con le stesse cose. La routine mi distrugge. Certo, andare a casa e riposarmi sul divano mi piace, però altre volte ho bisogno di sperimentare, di vivere posti diversi, esperienze e esspersone nuove. Per me è un’evoluzione che porta a scoprire, imparare, migliorare. E la accolgo molto volentieri».

Correre a 42 km/h: un essere umano cosa prova?
«Quando sono in pista quei nove secondi che servono per fare i 100 metri sembrano lunghissimi. Infiniti. Perché si riesce a percepire e a sviluppare tutte le fasi che si affrontano. Anche la gara di Tokyo potrei riviverla ancora lentamente, perché ricordo tutto come fossi andato a 2 all’ora. Tutti gli attimi: l’accelerazione, poi a un certo punto mi sono trovato a guardare con la coda dell’occhio e mi sono reso conto che al mio fianco non c’era nessuno. Così ho cominciato a intuire che stesse succedendo qualcosa di incredibile. Poi mi dicevo: ricorda di usare le braccia, non forzare, non andare in iperfrequenza perché il massimo lo hai raggiunto e rischi di rallentare, lasciati andare. Quando stavo arrivando al traguardo, per sicurezza perché magari avevo visto male, mi sono girato con la testa per capire se veramente fossi avanti. Lì per lì non si ha una sensazione. Alle volte mi sembra di correre più veloce in allenamento che in gara, altre pensi di correre fortissimo e in realtà non vai avanti. Devi seguire una certa linea: non si può partire forte e rischiare l’iperfrequenza. L’aspetto che da sempre curo è l’accelerazione più lunga possibile, cercare di portare la massima velocità più in là possibile. A Tokyo ho raggiunto il picco di velocità ai 70 metri. Ma in genere non mi rendo conto mai del tempo che ottengo, è difficile, lo guardo sul tabellone».

Ha mai corso più veloce rispetto a Tokyo?
«Sì, era una gara di 60 metri, a Belgrado, nel marzo del 2022, quando ho vinto il Mondiale. A Tokyo sapevo che era la chiusura di cerchio aperto a nove anni, quando ho messo per la prima volta i piedi sulla pista di atletica e sognavo di vincere le Olimpiadi. Ma ho realizzato tutto quando sono tornato in Italia. Sono pronto a rifarlo e anche meglio».

Batterà il record del mondo? 
«Penso sia un tempo davvero impegnativo. Non impossibile, se qualcuno lo ha fatto, ma impegnativo. Nessuno più si è avvicinato ai 9”58 di Bolt. Anche ora che abbiamo a disposizione nuove tecnologie e nuovi materiali, non si è scesi neppure sotto i 9”70. Sarei bugiardo se dicessi di non voler fare il record del mondo. Ogni atleta di questo livello ambisce sempre a diventare il migliore. Quando la mattina faccio colazione, porto i figli e scuola e guardo l’orario sul telefono: esce sempre 9.57... Io sono uno che fantastica con i numeri. Bolt? L’ho incontrato lo scorso anno, è simpatico, alla mano».

Le scarpe, oggi, quanto aiutano?
«Bisogna saperle usare, bisogna sapersi adattare alla corsa, alla pista. Ad ogni scarpa c’è un adattamento di corsa, nessuna scarpa è uguale. Io ne uso una da allenamento, poi quella della gara la utilizzo due giorni prima della corsa, faccio due allenamenti per ammorbidirla e ci corro la gara. E questa poi diventa la scarpa dell’allenamento».

Cosa conserva delle gare?
«Le medaglie, le bandiere che mi lanciano dagli spalti, ne ho una pila a casa, le scarpe. Oggetti particolari però non ne ho, non sono tanto scaramantico da avere portafortuna. Usavo gli stessi boxer in gara, ma quest’anno non hanno portato bene, quindi li metterò da parte».

Ha vissuto molti momenti grigi nell’ultimo anno.
«La parte un po’ triste è che ormai ognuno si sente in diritto di dover dire qualcosa. I social sono sia uno strumento di grande vantaggio che un martello che ti torna indietro tre volte più forte. A me sui social piace stare, ma ho capito che devo iniziare a non starci più, perché la maggior parte delle persone non sa e parla per sentito dire o per immaginazione. E nessuno pensa che certe cose possano arrivare al diretto interessato in un determinato modo. Già quando uno è infortunato, è un brutto periodo. In più con questo accanimento: come se avessi paura o timore di gareggiare. Voglio dire che io mi alleno, vomito e fatico quotidianamente per fare le gare, per portare i risultati. Se no direi basta e arrivederci. Fosse per me, gareggerei come fa la Formula 1: ogni weekend in giro per il mondo. Non siamo però macchine e a spingere il corpo sempre al massimo poi si possono creare problemi».

Non solo fisici.
«Anche mentali, certo. Dopo Tokyo ho sentito quasi naturale parlare di questo aspetto. Sicuramente l’allenamento è un fattore importante, ma io ho ho sbloccato qualcosa nella testa. All’epoca, quando dovevo entrare in pista, sentivo le gambe di marmo. Avevo paura, pensavo che tutti gli occhi fossero puntati solo su di me. Entravo in pista pensando già a cosa si sarebbe scritto il giorno dopo. Poi, anche grazie alla mia mental coach, le cose sono migliorate. Tante volte abbiamo lavorato a distanza, a Tokyo la chiamavo giorno e notte».

Lascerà Roma definitivamente?
«Non lo so, la casa al quartiere Fleming la terrò. Il gruppo americano, quando viene ad allenarsi in Europa, si stabilirà a Rieti oppure a Roma stessa. L’appoggio lo tengo anche per mia moglie e per i bambini, specie d’estate».

Qual è la sua Roma?
«La pista del “Paolo Rosi”, il Coni. Non sono uno che esce tanto. È vero, qui ovunque ti giri trovi qualcosa che può restarti nel cuore: il Centro, i miei ristoranti. Prima il cibo fusion, adesso le trattorie romane, il pesce. Amatriciana e carbonara sono i piatti che mangio quando posso sgarrare. E quando mi sono affacciato dal Campidoglio, nel febbraio del 2022, per un attimo, quasi quasi, mi sono sentito Giulio Cesare».

I tatuaggi aumenteranno?
«Ho ancora tanto spazio disponibile. Però devono avere un significato. Con i tatuaggi potrei raccontare la mia storia. L’ultimo l’ho fatto in Sud Africa, dove sono stato in vacanza. Ultimamente mi piacciono i simboli spirituali che attirano l’energia, la positività, il successo, la felicità. Me li sono tatuati per averli sempre con me ed essere sempre circondato dalla positività».

È anche il papà più veloce del mondo.
«Ho tre figli. Il primo ha nove anni, il secondo quattro, il terzo tre. Facciamo insieme milioni di cose, andiamo in tanti posti. Di recente siamo andati a vedere la Serie A di basket. Quando ci sono, cerco di essere presente perché poi so di fare una vita complicata e impegnativa, e loro devono starmi dietro, e spesso non è quel che vorrei. Qui loro hanno lo sport, gli amici, la loro scuola. E mi pesa spostarli. A me piace che i bambini stiano con i coetanei, che si confrontino con gli altri. Vanno alla scuola inglese perché io, non sapendo bene l’inglese, mi prendo ogni volta a bacchettate. Ma ora, in America, lo imparerò per forza».

I sogni li ha tutti realizzati?
«Ne avevo due da bambino: vincere le Olimpiadi e andare nello spazio. Ho visto che esistono già dei viaggi spaziali, però non mi sono ancora prenotato perché costano tantissimo. Mi piacerebbe, magari tra qualche anno».

Chi sarà il suo rivale a Parigi: ha già un riferimento?
«Io sono curioso e guardo le gare di tutti, anche dei campionati italiani cadetti. A me piace leggere i risultati, specie dei miei avversari quando sono infortunato. Mi piacerebbe esserci sempre. Il favorito per Parigi non c’è ancora. Tutti corrono forte e i nomi sul podio negli ultimi anni sono stati diversi. Se sbagli il primo appoggio, nei 100 metri, poi è dura recuperare. Vincerà chi sbaglierà meno».

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