Marco Pantani, 20 anni fa la morte dell'uomo che non vinse contro il destino

Ha vinto un Giro e un Tour, nel 1998, ma sono bastati a consacrarlo per sempre

20 anni senza Marco Pantani
20 anni senza Marco Pantani
di Marco Ciriello
Mercoledì 14 Febbraio 2024, 09:57
4 Minuti di Lettura

In questi venti anni Marco Pantani non ha corso eppure su tutte le salite dei grandi giri c'erano delle scritte per lui, incoraggiavano una idea non potendo più spingere una bicicletta, un campione, un corpo. In quelle scritte e negli occhi dei nuovi ciclisti, che potrebbero essere suoi figli, c'era la sua grande storia, quella di un italiano antico molto più vicino a Fausto Coppi che a Tadej Pogaar. Ma Pantani ha annullato il collezionismo dei titoli in funzione dell'emozione della corsa, vederlo arrampicarsi sulle montagne francesi o italiane è impagabile, vederlo scattare, distanziarsi e vincere sarà sempre una emozione intramontabile. Poi c'è il resto.

La tragicità della morte, il 14 febbraio del 2004 a Rimini nel residence dal nome semplice, “Le Rose”, come in un romanzo di Georges Simenon, e il mistero che ne consegue: tra tribunali, indagini, inchieste, commissioni parlamentari ed epica.

Di certo c'è solo che è morto per droga, la verità per come si sono messi i fatti si potrà scoprire solo se uno dei testimoni racconta l'altra versione, quella che aspettano sua madre e un popolo di tifosi pantaniani. E prima c'è il Giro scippato a Madonna di Campiglio, nel 1999, lì ci sono molti più elementi per dire che sì, fu maltrattato, derubato, accusato e poi lasciato solo. Dopo quella giornata assurda per Pantani e il ciclismo niente è tornato più alla normalità, ma tutto si è consegnato al romanzo e all'epica. Pantani è stato un capro espiatorio, una vittima, un conte di Montecristo che ha cercato e non trovato la sua vendetta, e ora è un eroe il cui nome vive sull'asfalto delle strade dove passano le sue amate biciclette. 

Ha vinto un Giro e un Tour, nel 1998, ma sono bastati a consacrarlo per sempre. Era un italiano antico, un pezzo unico, oggi lontanissimo da quelli che hanno l'età che lui avrà per sempre, 34 anni, di dolore e verità cercata: voleva i colpevoli, voleva i nomi di chi per conto del giro delle scommesse gli aveva rubato la vita e il ruolo di protagonista nello sport che era la sua vita. Arrivò a segare la sua bicicletta e a consolarsi nella cocaina, poi provò a smettere e a riprendere a pedalare, ma il ciclismo correva più forte, aveva preso troppo vantaggio e Marco Pantani si è sentito abbandonato in fondo e allora come fece Laurent Fignon è rimasto indietro a guardarsi il paesaggio un'ultima volta, e poi è sceso. Pantani è morto a Rimini dove non ci sono salite, di fronte al mare, dove immaginava l'altra vita se non fosse stato un ciclista sarebbe stato un marinaio solo come quando arrivava ai traguardi in montagna. È morto perché aveva perso tutto quello che amava, per capirlo bisogna vederlo vincere il Giro d'Italia dilettanti quando in salita già andava più forte di tutti, bisogna sapere che lavava la sua bici nella vasca da bagno e se la portava di fianco al letto; è morto quando hanno ucciso il bambino, quando l'hanno buttato giù dalla sella. Il resto è venuto di conseguenza. Pantani è un personaggio dell'antica Grecia come l'ha ritratto Dario Fo un guerriero con una vocazione masochistica, dal suo sudore fuoriuscivano le gioie sportive degli italiani, oggi c'è Sinner dove ieri c'erano lui o Valentino Rossi o Alberto Tomba. Ma Pantani stava un gradino più su, perché faticava di più, «i ciclisti sono i muratori dello sport» ripeteva sempre Gianni Mura, e Pantani ne ha alzate tantissime di architravi del sogno. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA