Terremoto in Irpinia, la tragedia dei paesi dell'osso e l'Italia recitò il mea culpa

Terremoto in Irpinia, la tragedia dei paesi dell'osso e l'Italia recitò il mea culpa
di Titta Fiore
Lunedì 12 Ottobre 2020, 12:00 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 14:08
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Il cielo era rosso, quella notte di novembre. Rosso di nebbia e di terra. In un minuto di terrore il terremoto aveva travolto, con migliaia di vite, anche il senso rassicurante del tempo: c'era stato un prima di certezze e di memorie, prima che alle 19,35 di una domenica che sembrava qualsiasi, una scossa catastrofica mandasse gambe all'aria l'intera regione. Ma dopo, cosa sarebbe rimasto dopo?

Il dopo, mentre intorno crollavano muri e speranze, semplicemente non esisteva. Non c'era nelle menti e nelle leggi. L'area colpita si allargava a macchia d'olio. Dalla radio le prime notizie affannose raccontavano del crollo di un palazzo di nove piani a Napoli, dei danni subiti dalle case di Potenza. Ma erano Avellino e i paesi arroccati sulle montagne dell'alta Irpinia le zone più colpite. Si parlò di presepi sbriciolati dall'enorme spallata e Leonardo Sciascia s'indignò, contestando la retorica, la falsa umanità di quella definizione. Disse che c'erano donne e uomini ostinati come le loro montagne, in quei presepi abitati dalla fatica di giorni sempre uguali.

Tutto spazzato via dalla forza cieca della natura e dai mali antichi di una terra impreparata a contrastarla. Sessanta secondi potenti come tonnellate di dinamite e di quelle vite, di quelle case era rimasto ben poco. Sant'Angelo dei Lombardi, Conza della Campania, San Mango sul Calore, Montoro, Lioni, Senerchia, Calabritto, Caposele, Teora. E poi l'Alto Sele e la Lucania: ovunque un panorama di morti e di rovine. 

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Il cielo era rosso, quella notte di quarant'anni fa. L'aria immobile, perché tutto era già accaduto. Con le linee telefoniche saltate e i collegamenti interrotti, non c'era che un modo: andare. E i cronisti andarono, senza sapere cosa avrebbero trovato. Nella luce livida dell'alba la realtà si mostrò peggiore del peggiore incubo. Paesi rasi al suolo, case polverizzate e sotto la pioggia che presto si trasformò in aghi ghiacciati di neve un'umanità schiacciata dal peso di una tragedia troppo grande. «I morti sono centinaia» titolò Il Mattino a nove colonne. Ma il giorno dopo fu costretto a correggersi: «I morti sono migliaia». E quattrocentomila i senzatetto, innumerevoli i feriti e chissà quanti dispersi. Tra i cumuli polverosi di macerie si scavava a mani nude al primo baluginio di lamiere, per ogni brandello di stoffa ritrovato, guidati dall'illusione di aver sentito un gemito sepolto dai crolli, spinti dal coraggio della disperazione. «Fate presto», urlò il giornale a caratteri cubitali. Ogni piazza diventò un rifugio, ogni caserma un campo di accoglienza, sotto le coperte militari trovarono scampo bambini senza più futuro e vecchi derubati del passato. Chi ne aveva la forza, restava accanto alle case distrutte, a fare la guardia alla «roba» rimasta sotto le pietre per salvarla dagli sciacalli, che a San Mango non ebbero rispetto nemmeno del santo patrono, ingolositi dal suo tesoro.

Da ogni parte si mise in viaggio lo slancio generoso della solidarietà, intasando di uomini e mezzi le strade dissestate. La macchina dei soccorsi, partita con grave ritardo, s'incagliò anche tra le file di auto e di roulotte piene di generi di prima necessità dei volontari. Spesso erano i radioamatori a guidare gli aiuti nelle zone più difficili, e nei superstiti scorticati dal freddo, dalla fame e dalla paura, con il dolore montava la rabbia contro le istituzioni: «Ci hanno lasciati soli». Nello stadio deserto di Avellino atterrò l'elicottero del capo dello Stato, Pertini vide medici e feriti accampati lungo la strada dell'ospedale lesionato, vide il ritardo inaccettabile dei soccorsi, la lentezza dei tempi di reazione della macchina governativa, la confusione e il caos nei centri di coordinamento. A Laviano un giovane padre gli andò incontro con la figlia morta tra le braccia: «Che devo fare?». Il presidente ne fu scosso, andò in televisione e fece sue le proteste dei terremotati: «Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato?». Il suo j'accuse scatenò un terremoto politico di potenza pari a quello geologico, si dimise Rognoni, ministro dell'Interno, arrivò a coordinare i soccorsi il commissario straordinario Zamberletti, che aveva già dato buona prova in Friuli. Scrisse con la consueta lucidità lo storico Giuseppe Galasso: «Si sono sorpresi tutti che la legge sulla protezione civile, a dieci anni dalla sua approvazione non abbia ancora ricevuto il completamento dei suoi regolamenti di attuazione. Il fatto è che la protezione civile rimane tuttora, in Italia, una disposizione cartacea». 

 

Il terremoto nei paesi «dell'osso» era stato un tragico banco di prova. Senza appello. Dalla gestione fallimentare di quell'emergenza emerse tra le polemiche la necessità di un coordinamento centralizzato degli interventi e degli obiettivi. «Di disordine si può anche morire», disse Zamberletti commentando il flusso incontrollato degli aiuti pubblici e privati. Da lì a un paio di anni, complice la tragica morte di Alfredino Rampi nel pozzo di Vermicino, si comincerà a parlare di protezione civile non solo come soccorso, ma anche come previsione e prevenzione. Si farà finalmente strada l'idea che i disastri debbano essere affrontati sulla scorta di scenari già elaborati e di misure sperimentate. Sui sopravvissuti dell'Irpinia, a otto giorni dal sisma, scese la neve. E arrivò il tempo delle fosse comuni. Tutto era freddo, fango, pioggia dove un tempo che pareva lontanissimo c'erano stati case e calore di famiglie. Fu allora che il supercommissario decise di varare il «Piano S». S come sgombero. Finita la paura, cominciava una nuova odissea.

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