Antonella Cilento dopo Anna Maria Ortese: il sole non illumina Napoli

La nuova opera della scrittrice napoletana

Antonella Cilento
Antonella Cilento
di Titti Marrone
Domenica 7 Aprile 2024, 08:00
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Il libro ortesiano della scrittrice più di chiunque vicina alla regina del racconto di Napoli declina fin dal titolo il suo ambito di appartenenza: e in Il sole non bagna Napoli Antonella Cilento si concede una pausa dal romanzo – il prossimo, Morfisa o l’acqua che dorme, uscirà in giugno – inventandosi un percorso letterario nuovo, ma con la mente alla grande Anna Maria. Con movenze da scrittrice selvaggia, come potrebbe dire Montesano.

Le note di presentazione parlano di un reportage letterario, ma nelle 160 pagine del libro c’è di più: ci sono guizzi di sguardo sul passato e il presente, una umanizzazione di architetture e luoghi, una rincorsa di visioni, le creature fantastiche da sempre presenti nel racconto di Napoli, un caleidoscopio di cunti, storie, fabule, resoconti dei più grandi scrittori di tutti i tempi, suggeriti dalla città. Cilento la sfoglia come una cipolla, ne percorre gli strati, ci slitta dentro, passa da un quartiere all’altro, dalla collina del Vomero s’inabissa nel sottosuolo, risale verso il suo nucleo antico, si ferma al centro storico dove, bambina, fu portata a comprare i suoi primi occhiali nell’ottica più antica d’Italia: Sacco, la stessa evocata in Un paio di occhiali dalla Ortese nella raccolta Il mare non bagna Napoli.

E la coincidenza che collocò la bambina Cilento nello stesso luogo dove la zi’ Nunzia condusse la sua miopissima nipote Eugenia per l’acquisto delle lenti al prezzo di «ottomila lire vive vive», in queste pagine evoca la magia di una simbolica investitura letteraria.

Qui la scrittura trascorre continuamente dalla luce abbagliante all’ombra, e quest’ultima s’impone a partire da un’altra singolare coincidenza: la città più osservata del mondo, la più sovraccarica di parole e retorica e luoghi comuni viene narrata in una condizione di scrittura che esclude proprio lo sguardo. Cioè Il sole non bagna Napoli è stato scritto in buona parte nel periodo in cui Cilento ha sofferto di un distacco di retina, quasi un demone meridiano l’avesse voluta accecare. Il percorso inverso rispetto a quello della bambina Eugenia, cui gli occhiali regalano la vista mostrando d’un tratto la bruttezza fino ad allora ignorata. A Cilento invece il buio va incontro guidandola verso il sentimento della città custodito nella «Napoli buia, mortuaria e secentesca» alla ricerca dei suoni di parole significanti. Le prime sono «occhi, ossa», cui seguono «balconi, guerra». Compongono un sentiero dove la scrittura, pur cimentandosi con luoghi mille volte raccontati e oggi invasi dal turismo famelico, compie il prodigio di interpretarne la forma vera. Cilento riesce a farlo senza mai aderire né agli oleografismi né ai conformismi sull’epos del male come canone narrativo. Interpreta le movenze della città seguendone le linee orizzontali e verticali dei decumani e dei cardini, ma tenendo presente come «Napoli sfugga a narrazioni dritte e si presti, piuttosto, a narrazioni concave e convesse, circolari, elicoidali, ellittiche». Seguendo queste direzioni sbilenche ci s’imbatte in Ulisse, nella sagoma di Polifemo accecato – altro indizio sul buio – e Nisida svela così la sua origine: dal sasso scagliato contro il suo nemico, cioè contro Nessuno. 

Cilento, oltre che scrittrice, è davvero lettrice selvaggia ed estrae dall’immenso pozzo delle sue letture una serie infinita di suggestioni come questa. Così su un altro piano di scrittura troviamo la richiesta che Lenor Pimentel de Fonseca fece a Cammarano, il più famoso Pulcinella, di fare la maschera in sembianza giacobina, e la risposta di quello: «Lo po’ pure fare ma solo pe’ fa’ ridere, per soldi. Isso non ci crede». Troviamo luoghi speciali posti ai margini dell’attenzione come il molo di Bagnoli o il museo Nitsch, intercettiamo Virgilio al centro di «uno slittamento di senso (che) collega l’omosessualità del poeta, vergi-lius, virgo, verginella, al quartiere oggi detto dei Vergini, sede del clan degli Eunostidi in epoca greca e bizantina».

Mai, però, questo procedere ellittico perde il suo filo di Arianna, che è quello del buio dei Trionfi della Morte trecenteschi, il medesimo della peste che nel 1656 uccise 450.000 napoletani, due terzi della popolazione. Il sole non bagna Napoli racconta insomma una città che si può improvvisamente oscurare, come avviene quando un ragazzo uccide un coetaneo musicista per il parcheggio di un motorino e poi va a giocare a carte. L’oscurità è condizione di magia evocata dal «romanzo che non c’è», borgesianamente citato da Alexandre Dumas, da Douglas e da molti altri, ma che forse nessuno ha letto: Napoli senza sole, che insegna un itinerario per percorrere la città restando sempre all’ombra, lo stesso delle passeggiate di Herling e del suo romanzo sul campanaro di Santa Chiara. 

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A confermare la cifra del contrasto su cui s’incardina il mito della città, al buio si contrappone la scia luminosa delle scritture di Hartlaub, Hoffmann, Gino Doria, Verdinois, De Filippo, Veraldi, Montesano e molti altri. Con una dedica implicita a tre autrici capaci come pochi di «avvitare le lenti sul naso del lettore che guarda Napoli»: Matilde Serao, Fabrizia Ramondino, ma sopra tutti la maga Ortese. 

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