Stellantis, intervista a Costanzo Jannotti Pecci: «Non può tradire l'Italia»

«Lo stabilimento di Pomigliano non può essere messo in discussione»

Costanzo Jannotti Pecci
Costanzo Jannotti Pecci
di Nando Santonastaso
Domenica 11 Febbraio 2024, 09:00 - Ultimo agg. 12 Febbraio, 07:21
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Presidente Jannotti Pecci, il nodo degli incentivi per evitare la chiusura di stabilimenti è al centro dello scontro tra Stellantis e il governo italiano: lei che idea si è fatto?
«Credo che non sia questo l'approccio giusto per affrontare un problema di mercato - risponde Costanzo Jannotti Pecci, presidente dell'Unione Industriali Napoli - Ricordo che l'ex Gruppo Fiat, attuale Stellantis, ha ricevuto dallo Stato nell'arco di diversi decenni un ammontare di sussidi pubblici mai ricevuto da qualsiasi altra impresa italiana o straniera operante in Italia. Ha operato con logiche in cui le relazioni con politica e istituzioni facevano aggio sulle ragioni della produttività e della competizione».

A cosa si riferisce in particolare?
«Un esempio clamoroso fu, a metà degli anni Ottanta, la mancata acquisizione da parte di Ford di un brand prestigioso come Alfa Romeo per 2,4 miliardi di dollari.

Quando i giochi sembravano fatti, finì in extremis alla Fiat, con il risultato che l'Alfa perse progressivamente quote di mercato. Il destino singolare di questo Paese, caso unico tra i grandi Stati occidentali, è stato quello di avere un solo produttore di automobili, che ha potuto comportarsi da monopolista, in mancanza di concorrenti».

Un'anomalia, sta dicendo, che però la politica per anni ha condiviso, non è così?
«Io guardo al fatto che nell'ultimo periodo sono stati erogati a Stellantis circa 800 milioni, ma solo il 30% è servito per l'acquisto di modelli costruiti negli stabilimenti nazionali. Insomma, a fronte di un sostegno pubblico molto significativo, non si registra, ai giorni nostri, una chiara volontà della holding di continuare a puntare sull'Italia. E questo malgrado gli impegni sul carattere strategico degli stabilimenti italiani assunti in occasione della fusione tra Fca e Psa».

Pensa anche lei che la presenza nel capitale di Stellantis dello Stato francese, oltre alle voci di fusione con la Renault, possa configurare un baricentro sempre più transalpino del Gruppo?
«Non entro nel merito delle voci su una possibile acquisizione di Renault, smentita da John Elkann dopo le aperture dell'Ad Tavares. Sta di fatto che già attualmente, a fronte dei sei stabilimenti italiani, Stellantis ne conta 12 in Francia. Con gli 11 della Renault, sarebbero quasi il quadruplo di quelli nazionali. Del resto, oggi i quadri direttivi di medio e alto livello sono per lo più francesi. È in ogni caso indiscutibile che, malgrado la progressiva perdita di centralità, Stellantis ha nel nostro Paese un patrimonio produttivo da salvaguardare e valorizzare ulteriormente. Con ben 43 mila dipendenti. Oltre a brand prestigiosi come Fiat, Lancia o Maserati».

Si è parlato del possibile ingresso dello Stato italiano nel capitale di Stellantis, sia pure con forti dubbi sui costi dell'operazione: che ne pensa?
«Mesi fa il presidente Elkann, a proposito di un eventuale ingresso dello Stato italiano attraverso Cassa Depositi e Prestiti, ha rimarcato il fatto che nella storia del Gruppo non si è mai avuto bisogno di avere lo Stato nel capitale. Si riferiva a quello italiano, visto che la Francia detiene il 6,4% di Stellantis. Si potrebbe pensare dunque a un ostacolo non insuperabile, ma qui giocano a sfavore altre considerazioni. Per acquisire una quota vicina al 6%, il nostro Governo dovrebbe sborsare circa 4 miliardi, in una fase in cui è impegnato fortemente a recuperare risorse per ridurre il debito pubblico. L'operazione Stellantis costerebbe un quinto dell'importo che si conta di incassare dalle privatizzazioni. Sembra difficile conciliare le due cose».

Ma non crede che sia il mercato a dover indirizzare scelte e obiettivi anche nell'automotive?
«Siamo ovviamente i primi sostenitori delle regole del mercato, della libertà delle scelte di qualsiasi impresa. Sappiamo bene che la rapida diffusione delle auto cinesi sul mercato europeo impone contromisure drastiche e soprattutto la ricerca di sinergie per ottimizzare la produzione e ridurre i costi. Ma la storia di Stellantis, ovvero la storia della Fiat e delle evoluzioni che l'hanno caratterizzata, con puntuali cambi di denominazione negli ultimi decenni, in tantissime occasioni è stata quella di un valore nazionale che prescindeva anche dalle mere logiche competitive e che quindi andava sostenuto, di sussidio in sussidio. Nelle scelte dell'attuale management, insomma, le radici italiane del Gruppo andrebbero tenute in considerazione anche per questo motivo, non per ragioni per così dire sentimentali. E neppure solo per tutelare livelli occupazionali che, sia chiaro, richiedono tutta l'attenzione possibile».

Se in Italia non si vendono tante auto di chi è la colpa?
«Non si può imputare agli italiani di non comprare auto in molti casi troppo costose per le loro tasche. Si pianifichino meglio modelli e obiettivi di mercato, piuttosto».

Pomigliano che dal 2011, quando Marchionne portò la Panda dalla Polonia e oggi con 1.200 Dodge Hornet trasportate ogni mese in America, ha permesso a Napoli di essere la vera capitale italiana dell'auto: come si tutela questo patrimonio umano e tecnologico?
«Pomigliano è da molti anni uno degli stabilimenti più produttivi e competitivi, con maestranze altamente professionalizzate. Non può essere messo in discussione sulla base di una sorta di mercanteggiamento con il governo, allo scopo di incassare qualche ennesima prebenda. Si tratta di un impianto troppo importante per il nostro territorio: 4.200 dipendenti diretti, compresi i trasfertisti di Melfi, con un indotto e una filiera molto qualificati, in particolar modo per la componentistica. Un patrimonio, come dice lei, che non si può eliminare e neppure ridimensionare». 

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