Giorgio Napolitano, ex comunista “regale” ​innamorato della sua Napoli

Dai ragazzi di Monte di Dio alla carriera politica: da giovane studente firmò anche una regia teatrale

Giorgio Napolitano al San Carlo
Giorgio Napolitano al San Carlo
di Titti Marrone
Venerdì 22 Settembre 2023, 22:59 - Ultimo agg. 23 Settembre, 20:02
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Negli anni Cinquanta, ai compagni napoletani ispirava una certa soggezione, un timore reverenziale e forse anche un po’ di estraneità per l’insolita sobrietà, il contegno regale, la figura eterea e severa. Mormorando sottovoce perché non sentisse, lo chiamavano “Giorgio ‘o sicco” per distinguerlo dall’altro suo omonimo, Amendola, soprannominato “’o chiatto”. Allora Giorgio Napolitano era poco più che un ragazzo, ma aveva già come fisicizzato il suo tratto distintivo da gran signore della politica che nel 2011 avrebbe indotto un editorialista del New York Times a riferirsi a lui come a “re Giorgio”.

Ora, se pochi uomini pubblici italiani possono vantare un’analoga cifra di compostezza, questa risulta particolarmente insolita per un politico partenopeo. Pure, l’uomo che portava incisa nel suo stesso cognome la città dov’era nato coltivava un forte sentimento di appartenenza a Napoli, raccontando sempre con piacere la propria meraviglia di sedicenne quando c’era tornato nel 1942, dopo il temporaneo trasferimento con la famiglia sfollata a Padova. Napoli era per lui il luogo dove tutto era cominciato, legato in primo luogo al ricordo, riportato nell’autobiografia laterziana, di «decine di notti trascorse nel ricovero antiaereo nelle enormi grotte di tufo nel ventre di palazzo Serra di Cassano, di fronte alla nostra casa di Monte di Dio». 

A Napoli aveva cominciato l’università, e orientato dal padre, noto penalista, aveva scelto Giurisprudenza. E alla Federico II, nell’organizzazione universitaria degli universitari fascisti – il Guf poi rivelatosi al contrario «vivaio di energie intellettuali antifasciste» - aveva cominciato a collaborare al settimanale IX maggio come critico cinematografico e teatrale. Firmando anche una regia teatrale, frequentando assiduamente il Mercadante e divertendosi anche, qualche volta, a recitare in piccoli ruoli o a fare da comparsa.

Nel Guf il giovane Giorgio trovò un gruppo di amici estremamente stimolanti e vivaci, quasi tutti già legati tra loro dagli anni del liceo, frequentato all’Umberto, e destinati a essere ricordati come «i ragazzi di Monte di Dio»: Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson, Massimo Caprara, Tommaso Giglio. «Era intensissima la nostra vita di gruppo», ricordò Napolitano. «Ci si incontrava quasi ogni giorno, nella casa o nella stanza di pensione di qualcuno di noi, per discutere delle nostre letture e delle nostre prime prove letterarie o artistiche. Un ruolo di guida era svolto da due amici più anziani, Renzo Lapiccirella e Galdo Galderisi, già comunista e in rapporto con il centro del partito». 

Insieme, i “ragazzi di Monte di Dio” fondarono una rivista, Latitudine, diretta da Massimo Caprara, e la presentarono alla dirigenza dell’appena costituita Federazione comunista. Ma ne furono respinti perché ritenuti rei di «ermetismo, decadentismo e perfino intellettualismo» giacché vi si citavano gli eretici Gide e Malraux. Al contrario, ad apprezzare molto la rivista per il suo cosmopolitismo fu Curzio Malaparte, che nella sua villa di Capri ricevette il ragazzo Napolitano. Lo scrittore, che di lì a poco avrebbe richiesto l’iscrizione al Pci provocando la reazione indignata di Mario Alicata e altri per i suoi trascorsi fascisti, gli regalò una copia di Kaputt con una dedica di apprezzamento per la sua capacità di non perdere la calma «neppure dinanzi all’Apocalisse». 

 

Nell’autunno del 1944 i «ragazzi di Monte di Dio» cominciarono a prendere strade diverse, chi nel giornalismo, chi nella letteratura, chi, come Napolitano e Caprara, nella politica. Quest’ultimo diventò segretario di Togliatti, Napolitano s’iscrisse al Pci cittadino in novembre, presentato da Alicata e Lapiccirella, e in dicembre prese a collaborare a La Voce diretta da Alicata, sempre da critico teatrale. Senza perdere i contatti con l’intellighenzia cittadina, riunita a Villa Lucia intorno al pittore Paolo Ricci, e nel solco della centralità attribuita alla cultura da suo padre Giovanni Napolitano, che era stato legato da consonanze profonde a uno dei firmatari del manifesto crociano degli intellettuali antifascisti, Gherardo Marone.
A Napoli, durante il congresso della federazione comunista di qualche tempo dopo, Giorgio Napolitano fece la conoscenza con Giorgio Amendola «energia politica allo stato puro...

che mi avrebbe più profondamente di chiunque altro influenzato nella mia formazione e nella mia vita politica». E qui, la corrente migliorista del Pci, ispirata alle posizioni riformiste di Amendola, nacque, operò e si rafforzo con la guida di Giorgio Napolitano, “’o rre” dei comunisti napoletani. 

 

Chiamato negli anni a incarichi sempre più importanti nel partito, e fino all’elezione alla più alta carica dello Stato, Napolitano non perse mai i contatti con la città. Da Roma seguì con attenzione la traiettoria di Antonio Bassolino, l’ex operaista ingraiano con cui il capo dei miglioristi ha sempre avuto un rapporto complesso. «Tra noi ci sono state divergenze politiche» mi disse Napolitano quando scrissi Il Sindaco, il libro sui primi anni di Bassolino a Palazzo san Giacomo. «Siamo differenti per estrazione sociale e culturale, io posso essere etichettato come uomo cauto, equilibrato, di Bassolino si può dire che ha sempre avuto un temperamento irruente, anche con punte di rigidità». Caratteri che riassumevano «le due anime del vecchio Pci, lui allineato sulle posizioni di Ingrao, io vicino ad Amendola». 

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Nella foto di gruppo elettorale del Pci scattata da Oliviero Toscani in piazza del Plebiscito nel 1992, i due apparvero insieme, anche se non proprio vicini. Ma ad allontanarli sarebbe stata, nel 2010, la tremenda crisi dei rifiuti del 2010, quando Napolitano, presidente della Repubblica, si disse «allarmato, non preoccupato» sollecitando una assai esplicita «assunzione di responsabilità precise». 

Parole interpretate da Bassolino come ingiuste non meno di quelle pronunciate nel 2006, in una fase di recrudescenza camorristica, sui «giorni tra i peggiori di Napoli».

E alla sua città del destino, Napolitano ha continuato a riservare fino alla fine pensieri e attenzioni. Arrivando a perdervi, nelle sue visite da presidente della Repubblica, il proverbiale aplomb istituzionale, acconsentendo ai bagni di folla davanti al Gambrinus, stringendo mani protese in calorosi saluti e perfino indossando, una volta, la maglietta preparata per lui da un gruppo di studenti, con la scritta: Io Giorgio amo Napoli.

I weekend a Villa Rosebery, qualche gita a Capri, e poi gli incontri con gli amici, sempre avvolti dalla massima riservatezza, e l’occhio attento ai problemi della sua città. Nell’ultimo dialogo, in occasione di un’intervista concessa al Mattino, quando non era più presidente della Repubblica da circa un anno, si rammaricava della stazione di Mergellina, completamente ristrutturata ma da cui non partiva più alcun treno diretto a Roma, a differenza del passato quando lui, insieme con altri deputati, facevano i pendolari con il Parlamento. E poi l’ultima bacchettata alla sinistra napoletana: «Si è perduto moltissimo, e ho già detto che della Napoli politica che ho conosciuto e rappresentato in Parlamento non c’è più quasi traccia. Si sono determinati nella sfera politica gravi fenomeni di impoverimento morale e culturale, di degenerazione nel costume e nei comportamenti. Bisogna ricuperare il meglio di quella storia, in particolare della sinistra napoletana, e ciò esige quasi un ripartire da zero».

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