Amato, epopea di un grande imprenditore
dal boom economico al crac

Amato, epopea di un grande imprenditore dal boom economico al crac
di Carla Errico
Venerdì 9 Settembre 2016, 13:33
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Era nato il 21 settembre, giorno di San Matteo. Si è fermato alla soglia dei novantun anni, quando però la parabola della sua vita e ancor più la saga della sua famiglia avevano già abbondantemente incarnato la storia della città nel secolo breve. Nessuno più di Giuseppe Amato ha rappresentato e portato nel mondo il «marchio» Salerno. Neanche Alfonso Menna, il sindaco patriarca, longevo come lui. Non Vincenzo De Luca, il secondo sindaco della «grande Salerno», leader in politica come il Cavaliere lo è stato nel mondo dell’imprenditoria meridionale. Grande amico ed estimatore dell’uno e dell’altro, Giuseppe Amato. E, come loro, artefice e testimonial delle metamorfosi di una città di cui non era figlio. Lui, però, veniva dalla piccola e vicinissima San Cipriano Picentino. Un cordone ombelicale più stretto. E rinsaldato in un arco temporale più ampio. Da protagonista. Dall’era Menna alla stagione De Luca.
Il calendario perpetuo dei «Molini e pastifici Antonio Amato» nelle case di tutti i salernitani. La pubblicità della «Pasta Antonio Amato» per dieci anni in tutti gli stadi in cui giocava la Nazionale italiana di calcio. Un pendolo, tra la città e il mondo, costruito da Giuseppe Amato quando con un management tutto familiare riesce a vincere la più grande scommessa imprenditoriale tentata a sud del Garigliano. Un’azienda che negli anni d’oro arriva a contare 300 dipendenti e un fatturato da cento miliardi l’anno. E un capitano d’impresa che scala le vette dell’associazionismo industriale: per otto anni e due mandati - un record mai eguagliato - al vertice di Confindustria Salerno, presidente di Federindustria Campania e membro della giunta di Confindustria nazionale, fondatore e primo presidente dell’Unione industriali pastai. E, soprattutto, Cavaliere del lavoro: il titolo che gli era più caro, ricevuto nel 1982 per i meriti del suo personale miracolo economico salernitano. 
«Bisogna curare la qualità della pasta in tutti i cicli di produzione, dalla selezione dei grani nel molino fino alla distribuzione nelle catene dei supermercati». È il pacato racconto di un successo, quello reso da Giuseppe Amato in una delle sue rare interviste. Precisione e dedizione al lavoro, lo stile di un uomo che seppe dire no ad un offerta di acquisto giunta da casa Agnelli. E il segreto di un’azienda divenuta negli anni Ottanta uno dei maggiori pastifici d’Italia, con esportazioni in tutta Europa, in Giappone, Medio Oriente, America, Australia, Nuova Zelanda. Un’avventura che accompagna gli anni del miracolo economico, quando la Salerno delle ciminiere sognava di diventare la «Milano del Sud». Un’epopea dal fascino antico, di cui il Cavaliere è demiurgo ma non iniziatore, se è vero che la storia della dinasty Amato comincia con Antonio, zio di Giuseppe. Nato povero e commerciante di “sciuscielle” (le carrube raccolte sul Masso della Signora), nel dopoguerra divenuto amico degli Alleati sbarcati a Salerno, che gli affidano l’incarico di distribuire al popolo affamato le derrate pagate con le Am-lire. Al fianco di Antonio c’è Giuseppe quando si compie il salto dal commercio all’industria, nel 1951: rilevano due molini pastifici cittadini in difficoltà, il Rinaldo e lo Scaramella, che diventeranno «Rinaldo & Amato» e poi, il 25 giugno 1958, la società per azioni «Antonio Amato & c - Molini e pastifici in Salerno». Il nome del capostipite resterà fino alla fine nel marchio per volere di Giuseppe, un legame di sangue rinsaldato nel frattempo ancor più con il matrimonio con la cugina. 
Ed è con i legami di famiglia che il Cavaliere rafforza la leadership dell’azienda. Ai vertici del pastificio, che dallo storico opificio di Mercatello si sposta nel moderno stabilimento della zona industriale, entrano via via il figlio Antonio e poi l’amato nipote Giuseppe Amato junior. Una dinasty. Amata e invidiata in città. Sempre in vista, con l’allure del potere e insieme lo stile del «padrone in punta di piedi», come gli operai del pastificio e i tecnici di Confindustria ricordano Amato senior. Una fama che non è leggenda. E che non riesce a sgretolarsi neanche quando la parabola si fa discendente, quando la fortuna volge in disgrazia. Privata e poi pubblica, come in una soap. Il lutto mai elaborato dal Cavaliere per il figlio Domenico, Mimmo, il padre di Giuseppe junior, morto a Roma a 37 anni. E poi l’incalzare terribile della crisi economica, le inchieste giudiziarie, il fallimento dell’azienda. È il 2009 l’annus horribilis per il pastificio Amato, il crinale in cui arrivano il blocco della produzione e la cassa integrazione per i suoi 140 dipendenti. Nel gennaio 2010 la famiglia Amato sigla l’accordo per la cessione dell’intero pacchetto azionario all’imprenditore siciliano Giovanni Giudice, dopo una serie di trattative che avevano visto interessarsi anche Garofalo e Colussi all’acquisto del pastificio salernitano. Un mese dopo, a causa di crediti non pagati per oltre un milione e mezzo di euro, due aziende di lavoro interinale chiedono il fallimento della società, che si rivolge al Tribunale confidando in un concordato preventivo. Ma è l’inizio della fine. E delle traversie giudiziarie. La Procura di Salerno apre un’inchiesta per frode, s’indaga su un giro di assegni circolati dopo la messa in liquidazione della vecchia società. Il 20 luglio 2011 il Tribunale dichiara il fallimento della società Antonio Amato & C. Molini e Pastifici s.p.a., bocciando così l’ipotesi di concordato preventivo. La Guardia di Finanza quantifica il fallimento in dieci milioni di euro. Per il crac dell’azienda vengono indagati con l’accusa di bancarotta fraudolenta dodici persone. Tra loro, il Cavaliere. Che non potrà vedere la fine del processo, giunto oggi alla fase dell’esame degli imputati dinanzi alla prima sezione penale del Tribunale di Salerno. Nel frattempo, a maggio 2012, all’asta bandita dal tribunale fallimentare, il pastificio viene aggiudicato all’imprenditore di Gragnano Giuseppe Di Martino. E da 15 ottobre 2012 la pasta Antonio Amato è tornata sul mercato con i trenta formati principali del pastificio, distribuiti in 600 punti vendita italiani, australiani, sudafricani, canadesi, californiani, tedeschi e kuwaitiani.
Luci e ombre di una vita d’imprenditore vissuta sempre da Salerno con lo sguardo lungo sul mondo. Il dissolversi dell’azienda di famiglia è senz’altro la delusione più cocente per Giuseppe Amato. Uno smacco dinanzi al quale pare quasi un «incidente di percorso» la vicenda dell’arresto, più antica e pur più clamorosa, all’epoca della seconda stagione di Tangentopoli. È il 15 settembre 1998 quando il Cavaliere finisce ai domiciliari, coinvolto in una maxi-inchiesta della Procura di Salerno, che lo accusa di truffa allo Stato, falso ideologico e falso in bilancio per non aver utilizzato un finanziamento di due miliardi ricevuto dal ministero dell’ Industria per ampliare lo stabilimento industriale e comprare moderni macchinari per la lavorazione della pasta. È un’onta che Amato si scrollerà di dosso, difendendo a spada tratta la scelta di voler utilizzare quei soldi ottenuti a fondo perduto per fare ancora più grande la sua allora ancora floridissima attività imprenditoriale. 
Lo stabilimento nella zona industriale è nato come un gioiello di tecnologie produttive, e nel frattempo per il vecchio opificio che oggi è in rovina lungo il cavalcavia di Mercatello Giuseppe Amato sogna un destino di riconversione urbana al servizio della città. È con l’allora sindaco De Luca che il Cavaliere presenta il progetto firmato dall’archistar francese Jean Nouvel. L’antico molino trasformato in monumento archeoindustriale e centro di aggregazione, e intorno case con le vetrate affacciate sul mare, giardini pensili, centri commerciali e servizi per il quartiere. Un sogno di cui resta il rendering affisso dinanzi alle cancellate chiuse dell’opificio. Lo scheletro industriale e il disegno visionario di Nouvel finiscono all’asta. Dopo il crac dell’azienda di famiglia. Insieme alla bella villa sul mare della Costiera amalfitana e all’appartamento al Corso in cui Amato ha vissuto buona parte della sua vita.
Una vita in pendolo, più luci che ombre nel legame con la sua Salerno e nei sempre sobri rapporti con la politica. Estimatore di Menna e poi di De Luca, si è detto. Ma soprattutto, negli anni in cui Salerno era sbeffeggiata come «Avellino marittima», grande amico di Ciriaco De Mita. Discreto sostenitore delle sue campagne elettorali e dei suoi progetti, Giuseppe Amato è considerato insieme ad Antonio Pastore il dioscuro della corrente democristiana di base. Mai tesserato, però. E mai «engagè». Toccherà al genero Franco Di Comite abbracciare il nuovo che avanza con Berlusconi e diventare il primo parlamentare salernitano di Forza Italia. Lui, il Cavaliere, è discreto sostenitore dietro le quinte. Preferisce farsi assorbire totalmente dai molteplici impegni in Confindustria. 
È solo per la Salernitana che decide di scendere in campo in prima persona. Un anno e mezzo in società, per dieci campionati sponsor. Il Cavaliere entra a far parte del club granata nella stagione 1985-86. È il presidente della Fi.Sa., la Finanziaria che rileva il pacchetto azionario da Arcangelo Japicca. La nuova società conta 58 soci tra imprenditori e sportivi salernitani. Giuseppe Amato è il più rappresentativo e viene eletto presidente onorario della Salernitana. Presidente effettivo Augusto Strianese, tra gli altri soci Almerico Tortorella, i costruttori Matteo De Martino e Giuseppe Soglia, i fratelli Clarizia dell’Eudecor, i fratelli Paravia, Pino Adduci, i fratelli Del Priore, Mario Capone. «La Salernitana in mano ai salernitani», lo slogan della nuova cordata. Con Giampiero Ghio in panchina, l’avventura dura una sola stagione, fino all’avvento di Peppino Soglia, nel 1987. Amato rimane presidente onorario, poi continua per dieci anni a sponsorizzare la Salernitana. C’è anche lui l’anno del ritorno in serie B. E nel frattempo porta il «marchio» alla Nazionale. Un pendolo, tra Salerno e il mondo.
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