Dalla propria terra si parte per mille motivi: per fame, per disperazione, per sfuggire alla guerra o al clima impazzito. E a volte si lasciano gli affetti, la casa, una povertà dignitosa per inseguire un sogno. Seydou e Moussa, i ragazzi protagonisti del potente film di Matteo Garrone «Io capitano», in corsa per il Leone d'oro e da oggi nelle sale in 203 copie distribuito da 01 in lingua originale, si mettono in viaggio dal Senegal perché vogliono diventare cantanti, salire su un palco come vedono fare ai rapper europei sui social («i bianchi ci verranno a chiedere gli autografi»), conoscere il mondo. «Quella che raccontiamo è una migrazione diversa» dice Garrone. «Il 70 per cento della popolazione africana è giovane, la globalizzazione è arrivata anche lì e questi ragazzi grazie ai telefonini hanno una finestra spalancata sull'Europa. Coltivano il legittimo desiderio di avere un futuro migliore, così come noi sognavamo di partire e andare alla scoperta dell'America. Solo che noi potevamo prendere l'aereo, loro devono rischiare la vita e questo è profondamente ingiusto».
Il film che il regista ha scritto con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, è una storia toccante che maneggia le emozioni a ciglio asciutto.
Nel lungo lavoro di documentazione è stato prezioso il contributo di Mamadou Kouassi Pli Adama, che affrontò il viaggio quindici anni fa: «È stato fondamentale soprattutto nella prima parte del film, in Senegal, ma anche durante il viaggio dei ragazzi, quando avevamo un problema lo chiamavamo e lui, come Mister Wolf di Tarantino, risolveva tutto in un istante». Oggi Mamadou, attivista del centro sociale ex Canapificio, fa il mediatore culturale a Caserta. «Ho attraversato il deserto dell'Africa subsahariana, sono stato tre anni in Libia, ho visto persone imprigionate, torturate, vendute», dice. «Matteo ha raccontato una storia vera, come fece con Gomorra. Io l'ho vissuta sulla mia pelle e ringrazio lo Stato italiano se ora posso essere qui, spero che il film aiuti a far riflettere sulla necessità di creare canali di ingresso regolari, perché solo così si ferma il traffico di esseri umani». All'inizio del film i due ragazzi vengono scoraggiati: «L'Europa non è l'Eden che credete, potreste morire». «Vero, anch'io l'ho detto, tornando in Costa d'Avorio. Ma la gente vuole affrontare ugualmente il viaggio, perché il sogno della libertà è universale».
Garrone racconta di aver scelto Seydou Sarr e Moustapha Fall per la profondità dello sguardo. Al Lido i ragazzi hanno firmato i primi autografi e sono felici. Lasciare il Senegal per inseguire il sogno europeo? «Non ci abbiamo mai pensato». Anche il finale di speranza, con l'orgoglio del giovane capitano di aver portato in salvo il suo carico di vite umane, si ispira a una storia vera: «Me l'avevano raccontata in un centro di accoglienza a Catania e mi è rimasta dentro», spiega Garrone.
Per la prima volta è in concorso a Venezia, nello stesso giorno della prima afroamericana, Ava DuVernay, in gara con «Origin». Alla proiezione ufficiale il film ha avuto un'ovazione di dodici minuti e tra il pubblico ad applaudire convinto c'era anche Mario Martone. «Ho ricordi meravigliosi di questo festival, ci venni la prima volta a 18 anni, facevo il maestro di tennis e un'allieva al Des Bains mi indicò un famoso regista, Nanni Moretti» sorride il regista. «Poi sono tornato per “Ospiti”, dormendo tre giorni in un furgone scassato e tre all'Excelsior. Poi mi sono appassionato al cinema e ora sono orgoglioso di essere qui». «Io capitano» era dato per certo a Cannes, cosa è successo? «Cannes? Perché, c'è un festival? Magari vado a Los Angeles per gli Oscar, se mi chiamano».