Strummer, memorie folk dell'ultimo ribelle rock

Joe Strummer
Joe Strummer
di Federico Vacalebre
Mercoledì 31 Marzo 2021, 15:30 - Ultimo agg. 20:33
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E va bene che la Dark Horse Records fu fondata da George Harrison, ma come viene in mente a qualcuno di chiamare «Assembly» un album in piena pandemia, quando ci è vietato assembrarci, assembl(e)arci, ritrovarci, congiungerci se non tra già congiunti? Però, poi il disco parte e il titolo si spiega da solo. Feriti e contenti, ci si ritrova assembrati sull’isola che non c’è, sotto il palco che non c’è, con il rocker che non c’è più, ma c’è sempre e sempre ci sarà, certo. «Assembly» è un’antologia della carriera solista di Joe Strummer (21 agosto 1952 - 22 dicembre 2002), da qui in poi semplicemente detto zio Joe, l’uomo che ci ha cresciuto e svezzato più dei nostri genitori, più delle nostre prime concubine, più del disco d’esordio dei Velvet Underground o di «Blonde on blonde». In uscita venerdì, 26 marzo, in tutti i formati - cd, doppio lp, digitale - «Assembly» assembla hit e rarità, emozioni e sentimenti, esistenze e resistenze. La carriera solista di zio Joe, con e senza i Mescaleros, guardando anche alla produzione per il cinema, riecheggia in perle minori come l’iniziale «Coma girl», «Johnny Appleseed», «Yalla», la cover marleyana di «Redemption song» a cuore aperto.

Ma, inevitabilmente, il colpo al cuore arriva quando il ricatto sentimentale della nostalgia canaglia scava nella stagione dei Clash, ancora e per sempre, «the only band that matters», l’unica band che conta.

Già uscita come singolo, e video di animnazione, «Junco partner» è una perla acustica, una registrazione casalinga - ritrovata su una cassetta negli archivi - di un pezzo che ha accompagnato la carriera di Strummer dagli inizi con The 101’ers alla versione su «Sandinista» fino ai Mescaleros. Registrato nel 1951 dal bluesman James Waynes, probabilmente scritto da Bob Shad, il classico - ripreso anche da Louis Jordan, Michael Bloomfield, Dr. John, Professor Longhair, James Booker, mentre Chuck Berry lo copiò per la sua «The man and the donkey» e Bob Dylan ne citò i versi nel titolo dell’lp del 1986 «Knocked out loaded». Ancor più clamoroso l’amarcord che scatta nel rotear di chitarre che apre il secondo dei tre inediti: i Clash non ci sono ma «I fought the law» (1959, Sonny Curtis con i Crickets, resa celebre dai Bobby Fuller Four) è fedele alla loro versione, è proprio quella che tante (e tanto lontane nel tempo) volte abbiamo pogato sotto il palco e ballato nei club, fino all’ultimo respiro, come nella più inutile delle sfide, come nella più adrenalinica delle scommesse esistenziali. Rockando e rollando, la terza chicca inedita approda al reggatta ribelle di «Rudie can’t fail».

E i ritmi in levare iniettano di sé larga parte del disco, come nel migliore dei «punky reggae party» che furono e saranno, tra la lezione di nonno Woody Guthrie (quello sulla cui chitarra c’era scritto: «questo strumento uccide i fascisti»), anticipazioni del Manu Chao prossimo a venire, schegge punk, cori da pub e da stadio, echi di folk barricadero e slogan combat rock, e non pop, come nella declinazione sanremese dello Stato Sociale.

Assembl(e)ati ed assembrati a distanza, nell’unico modo che ci è ancora possibile, quello virtuale, della memoria, della fantasia, ci si ritrova in magnifica compagnia, anche perché le note del disco le firma Jakob «figlio di» Dylan ed a gestire la Dark Horse Records è oggi Dhani «figlio di» Harrison. Nella voce di zio Joe la ruggine non dorme mai, nel suo canto libero e libertario senti il sapore del primo e dell’ultimo sorso di birra in una notte d’estate: fresco, desiderato, necessario, ma anche ormai caldo, amaro, da finire comunque, per lasciare spazio al prossimo.

E che voglia di assembrarci-assemblarci-congiungerci-concertarci, zio Joe.

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