Parlo di me, Repice: «Il giorno dello scudetto? Improvviserò»

Il radiocronista "romanista" racconta le partite degli azzurri

Francesco Repice
Francesco Repice
di Angelo Carotenuto
Sabato 22 Aprile 2023, 08:44 - Ultimo agg. 16:50
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Prima che il campionato di calcio finisca come deve, fatevi un regalo. Una sera accendete la radio e ascoltate la partita del Napoli come se fosse un viaggio nel tempo. «Tutto lo stadio è azzurro, ed è finita, sono le 17 e 42 del 10 maggio 87» disse Enrico Ameri dalla cabina del San Paolo la prima volta. Tre anni dopo fu «un'atmosfera di gioia che finalmente può prorompere». Seduti in un bar romano sotto il cavallo della Rai in viale Mazzini, adesso Francesco Repice dice che non sta preparando nulla, per quando sarà: «Improvviso, devo sentire lo stadio». È sua la voce di quel che si chiamava campo principale ai tempi di «Tutto il calcio minuto per minuto» quando la linea la dava dallo studio Roberto Bortoluzzi, napoletano, prima che il Neo-Calcio dal 92 abbracciasse la rivoluzione della cultura digitale e delle pay tv.

Come fa, Repice, a sopravvivere il racconto del calcio alla radio?
«Uno potrebbe sedersi davanti alla tv il lunedì e svegliarsi la domenica successiva alle tre di notte, facendosi lobotomizzare da immagini, chiacchiere, numeri. Alla Mostra d'Oltremare di Napoli, c'è una scritta di fronte a un albergo che mi commuove: il calcio allo stadio o alla radio. Scritto dagli ultrà del Napoli. La forza della radio è che ti insegue, puoi ascoltarla facendo altro, spero senza arrivare ai miei estremi. Da ragazzo entrai con l'auricolare al cinema, mi aveva invitato la donna più bella del creato a vedere un film di Dario Argento, ma c'era il derby di Roma. Fa gol Giovannelli e urlo. Mi hanno cacciato dalla sala e lei non l'ho più rivista. Per me la cosa più bella è andare a pesca, tra la mia Calabria e le Eolie, e sentire il notiziario in barca. La radio mette al centro il pallone. Ti costringe a pensare, a immaginare cosa succede. Se io spiegassi la tattica con il tre virgola cinque barra otto radice quadrata, in macchina spegnerebbero. A casa vogliono sapere dov'è il pallone. La radio è l'essenziale. Tempo, suono, giornalismo».

Cos'è stata nella sua infanzia?
«Il senso dell'attesa.

Quella di una canzone che ti piace e di cui non hai il disco, allora stai lì, ad aspettare che qualcuno la passi, chissà a che ora. Oppure l'attesa di un gol. Arrivava un boato e non sapevi di chi fosse. Se la tua squadra giocava fuori casa, forse il gol l'avevi subito. E poi la radio era "Gran Varietà", la domenica mattina, prima di andare a Villa Borghese col pallone: il signor Strarompi di Panelli, il barone Cocò di Montesano, Bice Valori, Fabrizi, la sigla di Dorelli e Catherine Spaak».

Perché racconta il calcio?
«Perché sono un calciatore frustrato. Non mi sono fatto male al ginocchio come dicono tutti. Non avevo i mezzi. Se una divinità mi chiedesse di scambiare cinque anni di vita per un gol sotto una curva davanti a 80mila persone, li darei senza problemi. La radiocronaca è un surrogato. Da bambino ne facevo senza accorgermene. Seguivo l'immaginazione. Un giorno l'ha scoperto mia madre: tu parli da solo. In Rai ho iniziato per caso. Il capo del giornale radio aveva letto i miei articoli di politica sul Popolo, direttore Sergio Mattarella, mi propose una sostituzione. Non avevo esperienza, fatta eccezione per le partite del Rende a una radio di Cosenza quand'ero minorenne e non potevo nemmeno chiedere l'accredito allo stadio. Corteggiai una signora del palazzo di fronte, alla fine si convinse, andavo sul balcone di casa sua con il telefono, attaccavo la spina e mi facevo chiamare. Finì che ogni due settimane mi cucinava la pasta al forno».

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In Rai cosa succede?
«Mi mettono in cronaca, vado bene, Sorgi mi prolunga il contratto, Ruffini mi assume e io chiedo il trasferimento allo sport. Mi disse che ero pazzo. Mio padre era furioso. Era un imprenditore, si occupava di tessuti. A cena con le grosse firme della moda, alzava gli occhi e con malcelato imbarazzo diceva: mio figlio si occupa di calcio. Mi presentava come lo scemo di casa. Nei suoi ultimi anni però mi ascoltava. Così capitava di stare in Brasile e ricevere la sua telefonata con cui mi faceva notare la consecutio, il participio futuro, la perifrastica attiva. Aveva altri progetti per me».

Enrico Ameri o Sandro Ciotti: chi sceglie?
«Ameri aveva la capacità descrittiva e un ritmo difficilmente replicabile, Ciotti un vocabolario enorme. La descrizione di una sostituzione di Selvaggi in un derby di Torino, la camminata dal campo alla panchina, sono 24 secondi di lezione di radio. Lo senti e pensi: così non vale. Una volta mi vede andare a condurre il Gr con gli appunti in mano e mi fa: "A regazzi', ma se ti danno una radiocronaca, te la scrivi prima?". Panico. Accartoccio il foglio e lo butto. Mai più scritto niente. Conosceva il gioco e molto altro, musica, letteratura. Morivo per lui. Sandro era un dio vivente».

E lei che passioni coltiva?
«Il teatro. Sto pensando a uno spettacolo per la promozione in A del Frosinone, con tre personaggi, tre centravanti in scena. La Ciociaria è molto vicina alla mia Calabria, si trova ancora il calcio di una volta, il panino allo stadio, la gente sanguigna. Al quartiere Giardini, nel mese di giugno fanno la festa delle cantine, entrano gli estranei dentro casa e ti fanno assaggiare il vino. E poi a Cosenza spero di fare uno spettacolo su Bergamini e Marulla, numeri 8 e 9 della squadra, i numeri che nel detto popolare scacciano il malocchio. Cosenza è la città di Emanuele Giacoia, voce meravigliosa. Il suo giornalismo è stata limpidezza assoluta, aderenza alla realtà, la cosa più vicina alla perfezione».

I libri della sua formazione?
«Narrativa, saggi, molto giornalismo. Volevo fosse la mia vita. Compravo i libri di Brera. Il suo corsivo per la vittoria di Ben Johnson nei 100 metri a Seul sono 35 righe di un altro mondo. Ciotti diceva: portatevi dietro uno zaino pieno di parole, leggete di tutto, le scritte sui muri, le pubblicità. Una parola giusta ti cava d'impaccio. Come a Napoli, quando non viene un termine e si dice o fatt'apposta. Quello là. Allora leggi, leggi, leggi. Perfino i romanzi erotici giapponesi del 700 che mi passava un amico, per saper dire di un gomito, di una carezza sulla pelle bianca. Tutto è servito».

Perché ha l'immagine di Maradona su whatsapp?
«Per ammirazione smodata verso un inarrivabile. Un dono del cielo a noi che amiamo questo gioco. Capisco Pelé, Di Stefano, tutto, ma lui a un certo punto va oltre. Succede quando nel suo paese, per un rigurgito nazionalista, il regime dei Galtieri, dei Videla, manda dei ragazzi a morire alle Malvinas, per la follia di riprendersi cosa? Degli scogli dove c'è solo vento. Lui, Diego, è uno che sta con Castro, con Chavez. È contro il regime. Ma quei ragazzi sono la sua parte. Allora segna per loro i due gol all'Inghilterra. Ecco, Diego supera allora la sua dimensione umana. Diventa l'Argentina».

Lei non nasconde di essere tifoso della Roma, ma il suo ritmo è travolgente sempre. Come si trasmette tanta passione a prescindere dai colori?
«Ho vissuto in curva, so cosa significa la rabbia, la gioia, il dolore. Sono figlio del 30 maggio 84, Roma-Liverpool non la auguro a nessuno. Conosco i viaggi in seconda classe con la puzza di vomito, le birre, le canne. Credo sia giusto che questa gente abbia una gratificazione, che sia retribuito l'amore gratuito per il calcio. Ho sentito un mucchio di volte la fesseria dei 22 in mutande dietro un pallone. Intanto sono pantaloncini: gli stessi che indossano in vacanza sulla sdraio in spiaggia, questi signori con le loro pelli bianche e grasse, mentre sdottorano, mentre deridono chi festeggia una vittoria nel calcio. Non capiscono niente, non provano un'emozione, non sanno di cosa si tratta. Sono aridi. Mio padre no, mio padre non sdottorava».

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