Scudetto Napoli, intervista a Paolo Cannavaro: «Finalmente la festa dopo gli anni bui»

«Benitez non mi ha dato la possibilità di fargli vedere cosa valevo»

Paolo e Fabio Cannavaro
Paolo e Fabio Cannavaro
Giuseppe Taorminadi Pino Taormina
Venerdì 28 Aprile 2023, 07:00 - Ultimo agg. 19:39
6 Minuti di Lettura

«È lo scudetto di quei tifosi che erano a Gela e a Manfredonia, di quelli come me che il 10 giugno del 2007 con lo 0-0 riportarono il Napoli tra le grandi della serie A, di chi era felice solo per il ritorno in Intertoto, di chi ha vissuto gli anni bui della discesa negli inferi del calcio e ora si gode una gioia unica, straordinaria». Paolo Cannavaro è un figlio di Napoli e del Napoli: capitano cresciuto alla Loggetta, lasciò il Parma in A per coronare il sogno della maglia azzurra.

Cannavaro, cosa è questo scudetto?
«È uno scudetto pieno di cose. È un momento di ricordi, come quando vedi tuo figlio che si prende la laurea con 110 e lode. E allora in quei momenti ripensi al suo primo giorno di scuola, a quando è andato alle scuole medie e poi al giorno della maturità alle superiori. Ecco, rivedo tutto questo. E in tutto questo ci sono spesso anche io».

È lo scudetto che torna al Sud.
«Sì, ma io a queste cose non do importanza, un po' mi stancano i luoghi comuni del riscatto sociale e così via. Piuttosto, è lo scudetto delle lungimiranza, è lo scudetto di un modello di club che fa invidia all'Italia, è lo scudetto di un presidente che spesso veniva preso per uno folle per la sua voglia di cambiare le regole e invece alla fine ha avuto sempre ragione su tante cose, sul taglio degli ingaggi, sui bilanci che devono essere sempre in regola.

Per questo è tutto più bello. Il Napoli ha vinto con la forza delle idee, dando un esempio di come si possa fare calcio in maniera sostenibile».

Li ricorda i primi due scudetti?
«Ero piccolo, ma mi viene in mente Fabio che si prepara per andare allo stadio a fare il raccattapalle sia contro la Fiorentina, nell'87, che con la Lazio, nel 1990. Per me, bambino, la partita era racchiusa nel boato del pubblico, perché da casa mia alla Loggetta sentivo e mi immaginavo tutto sentendo le grida dei tifosi».

Che festa si immagina?
«Interminabile. Che può durare anche fino alla prima giornata del prossimo campionato. Ora sono a New York, mai avrei pensato che già ad aprile potesse arrivare il giorno della conquista aritmetica. Festeggerò, spero, domenica con i napoletani che sono qui».

Un po' di invidia ce l'ha per Di Lorenzo e gli altri?
«Non è la parola giusta, ma sarei falso se dicessi che da capitano e da napoletano questo giorno non me lo sono sognato tante volte quando giocavo nel Napoli. Ma io ci ho provato sempre e ho il rammarico di non esserci riuscito. L'ultimo anno di Mazzarri ci siamo andati vicinissimi ed è quello il mio rimpianto».

Perché non lo vinceste?
«Cavani da un certo momento in poi si spense e smise di segnare. Ecco, non avevamo Raspadori e Simeone pronti a prendere il suo posto. Li avessimo avuti come alternative a Osimhen, sarebbe finita in un altro modo».

La rosa lunga ha fatto la differenza?
«Questo Napoli aveva come riserva Raspadori, un gioiello del calcio italiano, un talento vero. Ci rendiamo conto il livello che ha fatto raggiungere De Laurentiis?».

Anche lui, come lei, ha segnato un gol decisivo alla Juventus?
«Beh, il mio in rovesciata è sicuramente più bello (ride, ndr), secondo solo a quello stellare di Maradona su punizione. Ma quello di domenica è un'altra storia, per importanza, per peso: consegna lo scudetto al Napoli».

Non ce l'ha con Benitez perché l'ha costretta ad andare via?
«Ce l'ho solo perché è stato l'unico che non mi ha dato la possibilità di fargli vedere quello che valevo: da Sacchi a Di Francesco, ho sempre convinto tutti. Lui non me ne ha mai dato la possibilità».

Con chi sceglierebbe di giocare, con Kim o con Koulibaly?
«Preferisco una difesa a tre, io mi metto in mezzo, mi faccio bendare gli occhi e mi accendo pure un sigaro. Tanto con loro ai lati, possono pure farmi una dormita e faccio fare tutto a loro».

Cosa l'ha colpita di più in questa stagione?
«È stato un crescendo. E non a caso ha vinto la squadra che aveva in panchina l'unico allenatore che ha avuto esperienza di un campionato con una lunga sosta. Spalletti ha vinto in Russia, non è stato un caso».

I tre momenti chiave della stagione?
«Non ho dubbi: la gara in casa con il Liverpool, la lezione di calcio ad Amsterdam con l'Ajax e poi la vittoria al Maradona con l'Atalanta. Ecco, dopo quel 2-0 ho detto: è fatta».

Quale il merito principale di Spalletti?
«È stato un innovatore. Ha messo i giocatori al posto giusto, ha esaltato le qualità dei vari Kvara, Osimhen, Politano, Lobotka. E poi c'è Di Lorenzo che spesso ho visto più centrocampista che terzino. Il futuro del calcio è questo, perché la tattica tradizionale sta sparendo».

È sorpreso che lo scudetto arrivi dopo l'addio di tre bandiere come Insigne, Koulibaly e Mertens?
«No, ma anche loro hanno i meriti per essere arrivati fino a qui. Chi è passato ha messo un mattoncino in questo enorme grattacielo. Non bisogna dimenticare che questa società ha 19 anni di vita e ora tutti fanno a gara a venire al Napoli. Ma quelli che hanno messo le fondamenta meritano un grazie: perché nessuno deve dimenticare che all'inizio c'è chi il Napoli lo rifiutava, preferendo club che adesso magari non ci sono neppure più. Ecco, le cadute e le risalite hanno portato a questi giorni memorabili».

I suoi giorni più belli?
«L'orgoglio a Siena per la prima mia volta da capitano, il giorno della resurrezione con il ritorno in A, l'esordio in Champions con il Manchester City e quella musichetta che prima avevamo sentito solo alla tv».

Il Napoli gioca dopo la Lazio, potrà vincere lo scudetto domenica in campo e non davanti alla tv.
«Non sarebbe stato un dramma, è il calcio moderno. Pure il Leicester ha festeggiato lo storico trionfo della Premier a casa di Jamie Vardy. Io avrei fatto lo stesso se fossi stato il capitano: tutti a casa mia a vedere Inter-Lazio. Ma va bene così». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA