Giacomo Leopardi, ritratto del giovane inquieto

Gli studi di Raffaele Urraro, scrittore di San Giuseppe Vesuviano

Elio Germano nei panni di Giacomo Leopardi al cinema
Elio Germano nei panni di Giacomo Leopardi al cinema
di Ugo Cundari
Domenica 10 Settembre 2023, 12:00
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A 11 anni Giacomo Leopardi tiene le sue prime conferenze. È la Pasqua del 1809 e i recanatesi lo hanno inviato a parlare della passione di Cristo. Lui dà sfoggio di tutta la sua cultura che alimenta con letture in ogni campo del sapere, «un campo sterminato di interessi che soddisfa le sue più intime esigenze ed erode il suo gracile organismo; se da un lato accresce la sua considerazione di sé, dall'altro lo getta in un turbamento sempre più lacerante» scrive in Giacomo Leopardi: gli anni dell'inquietudine e della contestazione (Mimesis, pagine 512, euro 30) Raffaele Urraro, scrittore di San Giuseppe Vesuviano che alla vita del poeta di Recanati ha dedicato più di uno studio.

Stavolta si concentra sui suoi primi 24 anni, durante i quali Leopardi compie i suoi «studi matti e disperatissimi» dalla filologia alla filosofia, dalle scienze, in particolare la chimica e l'astronomia, alla poesia antica e moderna, dalla storia alla politica, e che faranno di lui, come giustamente disse il critico letterario Cesare Garboli, «un meteorite precipitato per caso nell'Ottocento».

Nei primi 24 anni della sua vita Leopardi impara il latino, il greco e i rudimenti di lingue come il sanscrito. Dà una forma iniziale alle sue idee sui concetti di natura, ragione, felicità, illusione. Elabora una teoria sul linguaggio e sulle creazioni del poeta, una personale concezione del rapporto tra il cristianesimo e la natura. A 17 anni scrive il Saggio sugli errori popolari degli antichi nel quale sentenzia: «Credere una cosa perché la si è intesa dire e che non si è presi la pena di esaminare, fa torto all'intelligenza umana». A 19 anni in una lettera a Pietro Giordani già dimostra una straordinaria conoscenza dell'animo umano e una profonda consapevolezza di sé ammettendo di vivere una «ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce».

Più in là confessa di sentire la mancanza di «quella dolce malinconia, so ben io qual è, e l'ho provata, ma ora non la provo più, che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria, la quale, se m'è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, che distrugge le forze del corpo e dello spirito». E infine, con una chiosa che anticipa il titolo di una grande canzone di più di un secolo dopo, scrive: «Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia». Leopardi è la dimostrazione che lo studio, quello vero, porta turbamento e inquietudine, induce una profonda ribellione nei confronti dell'ambiente familiare («delle mie cose nessuno si cura») e della città dove si è nati («qui tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità»), fino al disprezzo. Chi conosce si sente diverso, vuole essere diverso, e avverte la sublime certezza di incarnare i più alti ideali e di essere destinato a una vita di gloria, in questo caso letteraria, a una vita mai ordinaria a differenza dei comuni mortali. È il suo costante atteggiamento. 

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Come diceva Alfonso Berardinelli «Giacomo è il poeta giovane che resta tale per tutta la vita: con le sue frustrazioni, le angosce e la solitudine proprie di un giovane infelice» e per questo «è facile capire perché Leopardi continui a piacere ai ragazzi». 

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