Napoli, le minacce delle donne del clan per far ritrattare il pentito: «Noi siamo le padrone di Ponticelli»

«O lo fai ritrattare o rapiamo tuo figlio. Noi non siamo donne normali, siamo le padrone di Ponticelli»

La maxi retata di polizia e carabinieri a Ponticelli
La maxi retata di polizia e carabinieri a Ponticelli
di Luigi Sabino
Lunedì 28 Novembre 2022, 19:00
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«O lo fai ritrattare o rapiamo tuo figlio. Noi non siamo donne normali, siamo le padrone di Ponticelli». Sarebbero queste le parole che Gabriella Onesto, Enza De Stefano, Fortuna Ercolano e Maria Lazzaro avrebbero rivolto al nuovo compagno dell’ex moglie di Tommaso Schisa, il collaboratore di giustizia che, con le sue dichiarazioni, ha contribuito alla maxi indagine che, questa mattina, ha portato all’arresto, oltre che delle quattro donne, di decine di altri appartenenti alla confederazione criminale formata dai clan De Luca Bossa, Minichini, Aprea, Rinaldi e Casella, operativa nella periferia est di Napoli.

L’episodio è stato ampiamente ricostruito dalle indagini di carabinieri e polizia ed è contenuto nella voluminosa ordinanza di custodia cautelare emessa a carico degli indagati.

Una storia che inizia quando si diffonde la voce che Tommaso Schisa, uno dei fondatori del cartello malavitoso nato in funzione anti-Mazzarella, ha deciso di vuotare il sacco e di collaborare con la giustizia.

Tra i vertici dell’intesa, già duramente colpita da arresti e ordinanze, si diffonde il panico perché il neo pentito è custode di segreti che potrebbero portare al definitivo smantellamento dell’organizzazione criminale. Unica soluzione è quella di costringerlo a ritrattare le sue dichiarazioni. Bisogna, però, fare in fretta prima che gli inquirenti riescano a mettere insieme tutte le tessere del mosaico.

Mostrare subito i muscoli, tuttavia, potrebbe avere un effetto deleterio sul collaboratore e, quindi, spingerlo ancora di più tra le braccia dei magistrati. Per questo motivo, il primo approccio è quasi amichevole. L’incarico è affidato a uno spesino del carcere di Secondigliano, dove Schisa è recluso dopo l’arresto. È lui ad essere incaricato di portare il messaggio del boss Michele Minichini, detenuto nello stesso penitenziario. «Pensa a quello che fai, pensa a tua madre - riferisce a Schisa - sei ancora in tempo per tornare indietro e se lo fai tutto quello che è successo fino ad ora, facciamo conto che non sia mai successo».

Schisa, come da lui stesso riferito alla polizia penitenziaria, fa finta di accettare ma appena l’uomo si allontana chiede di conferire con i magistrati. È il 30 settembre del 2019. Passa poco più di una settimana e l’organizzazione torna all’attacco. Questa volta i toni sono diversi e si passa alle minacce. A essere preso di mira è il nuovo compagno dell’ex moglie di Schisa, Elisabetta Esposito.

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L’uomo è avvicinato dalle quattro donne che lo accusano di essere un infame e di aver portato Schisa a pentirsi. Gli promettono che avrebbe pagato per tutto quello che stava succedendo e che, anzi, per punirlo gli avrebbero rapito il figlio. Nemmeno due giorni dopo e le femmine della cosca, questa volta accompagnate da un altro indagato, Antonio Morino, tornano alla carica.

Questa volta l’obiettivo è la stessa Esposito raggiunta presso la sua abitazione di Marigliano. «Meriti di finire in un pilastro di cemento - le urlano contro - non ti preoccupare che domani mattina ci vediamo e ti ammazziamo».

Minacce che la donna prende sul serio al punto da abbandonare la sua casa e a precipitarsi in carcere per parlare con Schisa. È terrorizzata e vuole convincerlo ad abbandonare la collaborazione. Schisa, tuttavia, è irremovibile. Vuole continuare a parlare con la magistratura e a raccontare tutto quello che sa sul cartello malavitoso. Dichiarazioni che saranno oro colato per inquirenti e investigatori.

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