Coronavirus, i medici di Codogno: «Noi, abbandonati in prima linea con vecchie mascherine anti-Sars»

Coronavirus, i medici di Codogno: «Noi, abbandonati in prima linea con vecchie mascherine anti-Sars»
di Claudia Guasco
Giovedì 5 Marzo 2020, 07:33 - Ultimo agg. 09:11
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Il dottor Alberto Gandolfi è medico di medicina generale dal 94, ha lo studio nella zona rossa di Codogno e anche lui non si sente tanto bene. «Ho provato la febbre, non ce l'ho. Domani ricomincio con le visite», dice dal suo ultimo giorno di quarantena. È venuto a contatto con malati di coronavirus, perciò è in isolamento dal 19 febbraio anche se il suo tampone è risultato negativo. Il suo telefono squilla senza tregua per i consulti. I medici ci sono, ma nel gran marasma dell'emergenza si sentono abbandonati.

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PAURA IN PAESE
«Siamo sbattuti in prima linea senza attrezzature. Non ci danno niente. In ospedale girano coperti da scafandri come astronauti, noi abbiamo due, tre mascherine a testa e indicazioni confuse. Ci dicono che quelle chirurgiche non servono e le deve mettere solo chi è ammalato, che il medico dovrebbe usare soltanto quelle con i filtri. Noi stiamo indossando le vecchie mascherine che ci sono avanzate dall'epidemia di Sars. Nessuno ci ha chiamato per fornirci indicazioni su come affrontare l'ondata di contagio. Siamo fermi alla domanda: «Ha avuto contatti con la Cina?». Che poi, alla fine, è stata quella giusta posta «dalla collega anestesista che ha fatto il tampone al paziente uno del pronto soccorso di Codogno, l'uomo di trentotto anni, e meno male che le è venuto in mente di chiederglielo». Ora, quando si guarda indietro, il dottor Gandolfi reinterpreta le cartelle cliniche dei suoi pazienti. Già all'inizio di gennaio i casi di polmonite nel basso lodigiano hanno registrato una strana impennata. Un numero decisamente anomalo, che non si ricordava da anni. «Ho visitato tanti pazienti con il febbrone. Eravamo tutti convinti che la causa fosse il freddo e la mancanza di pioggia. Le lastre hanno confermato le broncopolmoniti e sono state curate con i soliti antibiotici». Ma da quando a quelle infezioni è stato dato un nome, il paese di 16 mila abitanti circondato dai campi è diventato il cuore della zona rossa e gli abitanti non possono uscire dai confini presidiati dai carabinieri. «I miei assistiti sono spaventati - racconta il dottor Gandolfi - Hanno paura e non sanno a chi rivolgersi. Il 112 è oberato dalle chiamate e i sanitari arrivano solo se la febbre supera i 39 e mezzo e subentrano difficoltà respiratorie. E va bene. Però la patologia c'è, anche se per fortuna non sempre in forme così gravi. Comincia a venire una febbriciattola, poi la tosse e i pazienti mi telefonano terrorizzati. La mia prescrizione è: non farsi travolgere dal panico, prendere la tachipirina, stare a casa e curarsi». Però dopo dodici giorni di quarantena, la prospettiva di un'altra settimana in isolamento e il numero di malati che continua a salire non è facile mantenere i nervi saldi. L'altro ieri era la giornata della distribuzione delle mascherine, una fornitura di seimila pezzi è stata bruciata in due ore. Quantitativo massimo: tre a testa, esibendo la tessera sanitaria. La voce però si è sparsa dalla sera precedente, così molti erano già in coda di buon'ora e diversi anziani se ne sono andati a mani vuote. Le mascherine poi erano quelle da chirurgo, ritenute dagli esperti non idonee a meno che non si sospetti di aver contratto il virus, e questo ha indispettito i cittadini. Un grande aiuto, dice il dottore, viene dalla postazione coronavirus organizzata all'ospedale da giovani medici che frequentano il corso di medicina di base: «Li contattiamo, organizziamo la visita, fanno subito una lastra».

«SEMBRA FANTASCIENZA»
Tra colleghi è il momento della solidarietà. «A Codogno siamo dieci, in questo periodo ci siamo sentiti spesso, abbiamo mantenuto i contatti. Soprattutto con chi è risultato positivo al tampone, per rassicurarci reciprocamente sullo stato di salute. Tutti, a dire la verità abbiamo mantenuto il sangue freddo. Ma anche i miei colleghi, in mezzo a questa epidemia, si sentono allo sbaraglio. Una cosa del genere, nella mia vita professionale, non mi è mai accaduta. Sembra un film di fantascienza, invece purtroppo è la realtà».
 

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