Eduardo De Crescenzo canta Napoli:
«Queste canzoni erano nel mio biberon»

Juiian Oliver Mazzariello con Eduardo De Crescenzo
Juiian Oliver Mazzariello con Eduardo De Crescenzo
di Federico Vacalebre
Sabato 12 Giugno 2021, 17:18 - Ultimo agg. 17:58
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Il regalo che Eduardo De Crescenzo, la più bella voce maschile italiana, si è fatto e ci ha fatto per i suoi 70 anni (sarebbero anche i 40 anni di «Ancora», ma stavolta quel brano proprio non c'entra) è grande, importante, emozionante. «Accade a Napoli», concerto clou della giornata inaugurale del «Campania teatro festival 2021» disegnato da Ruggero Cappuccio (alle 21 nel giardino paesaggistico pastorale di Capodimonte, 250 posti a sedere, naturalmente sold out in pochi minuti di prevendita), è per lui una prima volta, una di quelle prime volte che i suoi fan sognavano ogni volta che gli sentivano evocare il nome di Pasquariello.
Hai aspettato parecchio, Edo, prima di riprenderti quello che è tuo da sempre: la canzone napoletana classica.
«Mi appartiene, certo, per cultura, sangue, dna, come appartiene a tutti noi che ci siamo cresciuti dentro. Ma non avevo mai pensato di cantarla sino a quando non ho sentito in un club la Accarezzame di Julian Oliver Mazzariello, con cui suonavo in Essenze jazz. La sua rilettura mi ha spinto a questo concerto con lui, ha un tocco internazionale, ma l'emozione che comunica è verace».
Una voce (la tua, e che voce), una fisarmonica (ancora tua) e un pianoforte (Mazzariello). E poi la melodia partenopea dell'epoca d'oro.
«Andiamo a ritroso nel tempo, per partire dalle radici, con Fenesta vascia, e arriviamo sino a Luna rossa, scritta nel 1950 da mio zio Vincenzo De Crescenzo, ma il repertorio si focalizza su quella stagione magnifica in cui la canzone napoletana si impose nel mondo, per merito di poeti e compositori di straordinaria qualità: Di Giacomo, Ferdinando Russo, Tosti, Costa... portarono la loro arte anche al popolo, soprattutto al popolo. Io provo a rendere omaggio ai maestri che mi hanno insegnato l'arte dei sentimenti. Quelli della mia generazione hanno bevuto a una fonte magica».
Quando hai sentito per la prima volta «Era de maggio», «A vucchella», «Marechiaro» e le altre perle in scaletta?
«Sono nato l'8 febbraio 1951, sono cresciuto tra corso Novara e il ponte di Casanova, quelle melodie le ho trovate nel biberon. Nei giorni di festa un signore che abitava di fronte a noi suonava a gran volume sul suo fonografo i 78 giri di Pasquariello, di Caruso, di Albanese. Era l'unica musica che ho conosciuto da bambino, a parte quella dei pianini per strada e delle lezioni di fisarmonica, dove mi insegnavano Il volo del calabrone di Rimskij-Korsakov. A casa non avevamo la radio, accadde a Napoli che io scoprissi così la canzone, con quelle canzoni che diedero il là al concetto stesso di canzone. Mi riprendo parole e musiche che hanno attraversato la giovinezza dei nostri genitori, educato e infiammato i loro amori, confortato la loro adolescenza straziata dalla guerra. Le nostre mamme le cantavano mentre ci cullavano o per consolarci dopo un pianto disperato. Io vorrei presentarle ai giovani, poi decideranno loro che farne».
Canzoni consumate dal popolo, ma canzoni d'arte. Oggi il piccolo mondo antico di cantaNapoli, sempre più prossimo all'estinzione, è affrontato dai più in nome della contaminazione: world, jazz, rap, rock, elettronica... Tu, invece, hai deciso di procedere diversamente.
«Io ho cercato gli spartiti originali, in rete circolano copie incomplete o errate, ho innanzitutto letto e suonato quello che gli autori hanno scritto. Ho cercato di calarmi nel testo, di comprenderlo, di ascoltare al massimo due-tre versioni di riferimento. Poi, con Julian, abbiamo trattato queste perle con il rispetto che meritano, liberandole dalle incrostazioni figlie del tempo in cui sono nate come di quelle successive. La melodia e i versi sono rimasti a farci da guida».
A un certo punto della tua carriera la «canzonetta» ti stava stretta. Hai aggirato lo scoglio, e il pensiero di ritirarti, con «Essenze jazz» e una rilettura «jazzata» del tuo repertorio. Qui, però, non si può parlare nemmeno di jazz.
«No, qui siamo sul fronte della canzone napoletana nuda. Julian ha un suono classico, nel senso di musica classica, ed ha portato dentro il progetto illuminazioni importanti, pur non appartenendogli per cultura questo canzoniere: è nato in Inghilterra, è arrivato in Italia a 17 anni. Io canto con amore e provando ad essere voce di dentro della canzone stessa. Le emozioni hanno un suono preciso, hanno parole precise ma per riconoscerle bisogna impararle».
Come il Piazzolla che voleva riportare il tango nelle sale da concerto, tu pretendi il ritorno di cantaNapoli negli auditorium, tra i lieder, madrigali e villanelle, tra Chopin e il maestro di «Libertango». Vian musicò «Luna rossa» a tempo di beguine, ormai era il tempo degli americani di Napoli, a partire da Carosone. Come inserisci questo pezzo in un repertorio così rarefatto, che non insegue il supporto del ritmo?
«Julian apre tutto sulla tastiera, io parto con la fisarmonica ricordandomi come la suonavo per i parenti da bambino, poi cerco di badare al testo, alla disperata solitudine di un uomo che ha perso la sua donna: più Caetano Veloso che Claudio Villa. Certe note non sono da cercarsi nella gola perché non ci saranno mai se non le abbiamo vissute e se il nostro cuore non le ha comprese».
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