Ghemon al teatro Bolivar di Napoli: «La scena è la mia terapia»

«Ho iniziato tardi e me ne pento, ma una cosa così la sognavo già da bambino»

Ghemon
Ghemon
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Giovedì 7 Marzo 2024, 11:03
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Ha iniziato in sordina, un po' per gioco e un po' per rodare bene il gioco, poi ha visto che la faccenda si faceva seria, che ci prendeva gusto lui come gli spettatori, che quel mondo gli stava più comodo di quello da cui veniva. Ghemon (all'anagrafe Giovanni Luca Picariello, 41 anni, da Avellino) torna domani a Napoli, al teatro Bolivar, con «Una cosetta così». 

Lo spettacolo è presentato per negazione: non è un concerto, non è un monologo teatrale, non è uno show da stand up comedian. Perché?
«Perché all'inizio sapevo quello che non volevo più che quello che volevo.

Non volevo un'esibizione canora, non volevo un recital, non volevo la raccolta di sketch che fanno ridere».

Poi hai capito anche che cosa volevi?
«Volevo essere Ghemon, o Giovanni Luca se preferisci. Portare in scena quello che sono oggi, quello che sono diventato anche grazie a questo spettacolo, cresciuto nel tempo, lontano da occhi indiscreti, con giri anche in provincia, in teatri di città dove magari non avevo poi così tanti fan, ma sono venuti ad ascoltarmi lo stesso, siamo riusciti a comunicare».

Sembra che il mondo da cui vieni, quello del rap prima e della canzone poi, ti stia sempre più stretto. E che quello del teatro canzone ti attiri sempre di più.
«È vero: canto e rappo, ma non i miei successi, quanto brani nati per lo spettacolo, a volte durante il tour dello spettacolo. Ho accanto a me un tastierista e un chitarrista e srotolo le mie parole inseguendo piccoli e grandi fatti della mia vita, influenzato da quello che avviene in quel momento (un bicchiere che cade in un teatro silenzioso è come un terremoto) come dalle notizie fresche di giornata».

Il modello, credo che ce lo siamo anche già detto in passato, è Gaber.
«Sì, ma il buffo è che ho approfondito il Signor G. solo dopo aver intrapreso quest'avventura. Mi conforta pensare che qualcuno del suo calibro abbia percorso questa strada così tanto tempo prima di me: non sono del tutto pazzo».

Ricapitolo: come lui hai lasciato «l'intronata routine del cantar leggero» (copyright Pasquale Panella per Lucio Battisti) e la sua estrema semplificazione preferendo la profondità e la complessità del teatro canzone? Più che chiederti quando farai un nuovo album dobbiamo chiederti quando farai un nuovo spettacolo?
«Proprio così. E il nuovo spettacolo ce l'ho già in mente, con il piacere, e la comodità, di poterlo rodare dal vivo, di non dover tirar fuori un pugno di canzoni e vedere dopo se funzionano: le sperimenterò davanti al pubblico che mi sceglie, non quello che se non lo hai colpito al cuore in dieci secondi passa appresso».

In scena parli anche del tuo mestiere, con la franchezza che hai espresso in un recente post che partiva dallo stop che Sangiovanni si è imposto per criticare un'industria discografica che tritura giovani, ancor prima che talenti.
«Sì, affronto il tema, nel senso che racconto, senza giudizi, dando fiato alla mia storia, alle mie esperienze, a quanto è successo a me».

Il Ghemon stand up comedian parte da lontano?
«Sì, ho iniziato tardi e me ne pento, ma una cosa simile la sognavo già da bambino. Restituisce senso al mio mestiere, al mio flusso di parole, al mio sentirmi artista, alla mia vita confusa».

Sembra tu stia parlando di una terapia.
«Ma lo è, mi cura e spero serva anche per curare chi sta di fronte a me, fa uscire la mia parte più ironica, mi rimette in connessione con un mondo vero, con chi esce di casa per vederti ed ascoltarti, non ti cerca nel videino di un telefonino mentre sta facendo mille altre cose».

Un pubblico a cui chiedi una sola cosa.
«Sì: mollate i cellulari e no spoiler. E vale anche per te, mi raccomando». 

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