Fabrizio Moro: «Vi canto
la rabbia dei figli di nessuno»

Fabrizio Moro
Fabrizio Moro
di Federico Vacalebre
Venerdì 12 Aprile 2019, 19:39
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E ora il suo «Non mi sta bene niente» fa venire immediatamente in mente il «nun me sta bene che no» di Simone. La distanza tra Torre Maura e San Basilio non conta, perché, spiega Fabrizio Moro, «mi sono rivisto nel suo spaesamento, nel coraggio sino all'incoscienza, nella voglia disperata di afferrare il futuro con i denti di Simone di fronte a quelli di Casa Pound. A 15 anni non ti fanno paura i grandi, non li capisci e basta, ti fa paura il mondo, ma ti abitui a convivere con la paura. Alla sua età gli assomigliavo, ero polemico, rivoluzionario, arrabbiato». Ora che ne ha 44 di anni ed è al suo decimo album, Fabrizio (che all'anagrafe fa Mobrici), polemico e arrabbiato lo è ancora, «forse anche rivoluzionario», racconta.
Perché un titolo come «Figli di nessuno»?
«Al plurale perché siamo tanti: io, Simone e milioni di altri scugnizzi italiani cresciuti con noi stessi. Mamma e papà c'erano, ma... spesso era come se non ci fossero, eppure siamo in piedi, camminiamo e... nun ce sta bene che no. Ci giudicano senza conoscerci e senza ascoltarci, se poi un Simone alza la voce e dà lezioni agli adulti... finalmente i ragazzi fanno notizia».
Quanto c'è di autobiografico in versi come «figli di sette Peroni fredde alla vigilia di Natale»?
«Tutto, invece di bere vino bianco con i parenti stavamo sul muretto di San Basilio con gli amici e le birre».
Oggi tu sei famoso e quegli amici delle sette Peroni fredde alla vigilia di Natale? Che fine hanno fatto?
«Alcuni sono morti, altri hanno trovato la loro strada, io sono stato il più fortunato».
E ora canti «Filo d'erba» per tuo figlio Libero, 10 anni.
«È una confessione amara, forse il brano più ispirato, sicuramente quello che sento di più e più mi ferisce, l'ho scritta per chiedergli scusa di aver ferito lui, del divorzio, degli errori che abbiamo fatto io e sua madre».
Il disco ha l'immediatezza del cantautorato pop di questi anni, di pancia, diretto, attento al ritmo, quasi rap, a tratti fa pensare a un Caparezza che gioca meno con le parole.
«Forse siamo uniti dal fare musica come una band, non come singoli, di sicuro per me il groove è importante, e nel disco, e anche questo può far pensare a Capa, ci sono pezzi rock, chitarre punk, brani alla Rage Against the Machine. Forse, un'altra cosa che ci unisce, è l'attenzione per il suono del linguaggio».
«Ho bisogno di credere» parla di fede?
«Sì, ma di quella fede generica, anche nell'uomo, anche in una bandiera, anche in un'idea, che devi avere per sopravvivere. Io, comunque, nei momenti bui mi sono rivolto a dio tante volte».
«Suonavo il punk nella cantina/ ero depresso appena sveglio la mattina/ suonavo il punk contro il sistema/ la mia esistenza in quegli anni era una pena»: «Non mi sta bene niente», Simone di Torre Maura a parte, fa pensare invece a Vasco Rossi.
«Magari! Lui è il numero uno».
«Me' nnammoravo de te» parla della tua/nostra nazionale, ma non è «Viva l'Italia» e nemmeno «Aida».
«Come De Gregori e Gaetano racconto la mia Italia, con meno epica e militanza di Francesco e con meno angosce di Rino, ma non nomino a caso Berlinguer e Pasolini: mancano dei punti di riferimento così, politici e intellettuali non sono più credibili. Forse dovremmo prendere un bastone e scendere in piazza, fare la rivoluzione, ma noi italiani non la faremo mai. Il pezzo, però, mi è stato ispirato dal film di Pif, La mafia uccide solo d'estate, e dalla consapevolezza che molti ragazzi avevano sentito parlare di Falcone e Borsellino solo grazie alla mia Pensa. Non credo che l'Italia ci abbia traditi, siamo noi ad aver tradito lei e la sua grande bellezza».
Che cosa c'è dietro la descrizione di «Attacco cardiaco»?
«Uno dei miei attacchi di panico: doveva chiamarsi così».
In classifica il tuo album se la vedrà con «Colpa delle favole» di Ultimo, tuo protetto, amico, erede nella scena romana, e non solo.
«Bella sfida, ma la canzone non è una gara. Quelle lasciamole ai trapper che parlano di sesso, droga, armi... Fanno musica schifosa e non sanno di cosa parlano: io sono stato due anni in comunità e questi fanno la pantomima della droga. La droga è una merda, non è uno status symbol. Noi, Ultimo e io e altri, cantiamo emozioni vere. E le mie non vedono l'ora di prendere nuova forma su palco: si inizia a ottobre nei palaspot: Il 12 ad Acireale, il 18 e 19 a Roma, il 26 a Milano».
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