Anna Maria Ortese, le lettere all'amica «che capisce il mio cuore»

L'arco temporale che copre la corrispondenza va dal 22 maggio 1940 al 5 gennaio 1944

Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese
di Generoso Picone
Venerdì 30 Giugno 2023, 07:00 - Ultimo agg. 1 Luglio, 10:05
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«Io amo chi mi vuol bene per la mia disperazione quello sento fratello o sorella quello amo. Spero che sempre, fino alla fine, Iddio mi faccia conoscere la santa disperazione, che porge alle creature il bicchiere d'ebbrezza e apre loro gli occhi sul mare della realtà. Vera gioia, è vestita di dolore. Vero dolore, è vestito di gioia». È il 5 giugno 1941 quando Anna Maria Ortese scrive alla sua amica Mattia consegnandole con radicale efficacia il senso che per lei ha acquisito l'abitare il mondo. Mattia è la ventitreenne Maria Marta Pezzoli, studentessa universitaria bolognese, lettrice di larga curiosità e poetessa di precoce talento, anima sensibile, anche lei in silenziosa difesa dalle mille insidie dell'altro, quindi di grana assai simile a quella dell'autrice di Angelici furori. Proprio i racconti dell'esordio ortesiano del 1937 l'hanno tanto profondamente colpita da far nascere una immediata empatia umana e confessare di vivere «all'incirca» come la loro protagonista.

«Mattia, ti voglio bene perché tu capisci quello che voglio dire», confessa Ortese per poi invitarla a «non compassionarmi troppo per ciò che vorrei, credo, avere - e non ho essere, e non sono».

Perché in fondo, «vera gioia, è vestita di dolore».

Quest'affermazione costituisce il paradigma di una esistenza. Opportunamente è diventato il titolo della raccolta delle lettere inedite a Mattia curata da Monica Farnetti con una nota di Stefano Pezzoli (Adelphi, pagine 160, euro 14) che si affianca alle pagine del corpus ortesiano nella forma del referto di un percorso pur breve ma assai significativo tra le mille ansie quotidiane e gli accadimenti di un tempo complicato e difficile, del documento che testimonia dell'inquietudine di una donna «debole e incerta come una schiava, sono; come una fontana, che, solo quando passa il vento, si agita e scintilla; e poi mormora umile a terra».

L'arco temporale che copre la corrispondenza va dal 22 maggio 1940, dal telegrafico biglietto di scuse da Napoli per aver utilizzato la matita, al 5 gennaio 1944, dalla cartolina spedita da San Martino al Cimino presso Viterbo che annuncia laconicamente di aspettare «la primavera e la bontà di Dio». L'appendice restituisce i profili di smarrimenti, di paure incombenti, di fantasmi notturni, di sogni d'amore straziato e di indigenza estrema. Ortese ha 26 anni, da poco ha conosciuto Pezzoli e ne è nato subito un rapporto di confidenza e intimità. Lei già autrice conosciuta, collaboratrice di riviste e quotidiani; Marta ha studiato Lettere, scrive versi e aspira a partecipare ai Littoriali: l'amicizia si nutre della comune devozione verso Katherine Mansfield , «la purissima, la incantata Mansfield», «un dio di pace e di bontà» che promana un'aura di religione della poesia. Il culto per la Mansfield offre il balsamo per gli strazi di Anna Maria e della famiglia Ortese: i fratelli andati via, Emanuele-Rassa morto da nocchiere scelto della regia marina nel 1933, Antonio-Albe Garcìa, gemello di Anna Maria, cadrà alla fine del 1940 in Albania, Raffaele-Lele prigioniero a Cuba e Francesco-Frisco pronto a emigrare oltreoceano. Le figlie Anna Maria e Maria sono chiamate a tenere insieme i genitori e la moglie e i figli di Raffaele attraverso traslochi, spostamenti e partenze. Le lettere a Marta, le cui risposte sono disperse tra il disordinato patrimonio delle carte ortesiane, vibrano dei conflitti interiori alla maniera di quelle a Paola Masino o Adriana Capocci Belmonte.

Come spiega Monica Farnetti, accompagnano nella «vasta sala non ancora visitata» di cui parla Virginia Woolf, «tutta piena di mezze luci e di ombre profonde» per disegnare i contorni di una figura convinta di non avere pari in infelicità. «Noi camminiamo in vie di fango, tutti indistintamente. Se alcuni sono felici, è perché non guardano dove sono costretti a marciare, ma in alto», scrive Ortese l'1 agosto 1941. In questo cammino ci si misura con la vita, rivela l'insorgere dei suoi malanni cardiaci, celebra le epifanie irrisolte degli amori. «Come una mendicante, delle briciole che mi cadono dalle mani dell'Armonia ... Io sono come un albero che vuole mettere in cielo le sue radici. Povero albero, solo la terra è per esso. Di questo, credo, io soffro». Sono i giorni tra il 19 e il 21 marzo 1941, è apparso Alfonso Gatto «Un giovane ch'era della mia vecchia "Italia" e che oggi scrive delicati articoli sul "Mattino» -, lo vedrà a Firenze, si scambieranno parole, versi e sentimenti, quindi calerà il silenzio.

Resterà la scrittura, soprattutto. «Scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifugio triste, non è la vita» (4 agosto 1941). E il consiglio che il 20 aprile 1941 offre a Mattia è «fa' che vi sia in te un angolo remoto e meraviglioso, quasi una casa in un bel giardino, sospesa su un abisso, dalle cui terrazze si ascolti l'urlo del mare e si seguano le apparizioni della luna e del sole». 

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