Ortese e il sogno di Procida nella storia di un epistolario con Pasquale Lubrano Lavadera

La presentazione con l'autore il 17 novembre all'Archivio di Stato di Napoli

Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese
di Donatella Trotta
Giovedì 16 Novembre 2023, 13:22 - Ultimo agg. 13:27
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Un memoir in forma di carteggio. Un racconto lieve e appassionato con il respiro, le emozioni poetiche e gli accenti intimi di una consonanza spirituale tra sensibilità vibratili. Ma anche la testimonianza sincera, personale e sofferta, di un incontro: mai avvenuto di persona e tuttavia pienamente realizzato dai frammenti di una corrispondenza letteraria in apparenza inattuale, ma densa di significati e rinvii per cogliere il senso profondo non soltanto di due anime – prima ancora che vite - in dialogo, ma anche delle risonanze universali di quella che per Arthur  Schopenhauer era «la letteratura vera e propria», ovvero quella di chi vive “per” essa e che nel tempo diventa «permanente» e «resta», rispetto all’”altra letteratura”: quella «apparente» di chi vive “di” essa, la quale, invece, «passa».

È la storia di un triplice incontro quella raccontata nel libro di Pasquale Lubrano Lavadera dal titolo «Anna Maria Ortese e l’isola di Procida. Storia di un epistolario» (Iod edizioni, pp. 138, € 15, con una partecipe prefazione di Filippo La Porta), che si presenta venerdì 17 novembre alle ore 17 nell’Archivio di Stato di Napoli alla presenza, con l’autore, di Lorenzo Terzi, funzionario dell’Archivio, del direttore editoriale di Iod Pasquale Testa e di chi scrive, introdotti e moderati dalla giornalista e autrice Gea Finelli.

Perché la corrispondenza (dal 1988 al 1994) tra la lucida e visionaria “scrittrice  di idee” (come la definiva Alfonso Gatto), e il suo ammirato, attento lettore e critico procidano, Lubrano Lavadera - poliedrico scrittore, pubblicista, poeta e pittore, già docente di matematica in varie scuole della Campania, legato da un profondo quanto inquieto e tormentato amore per la sua isola natìa – si snoda proprio nello specchio (e oltre) di quell’Isola di Arturo che diventa, in filigrana, terzo interlocutore sotteso allo scambio epistolare tra i due: Procida, appunto. Per Ortese, lontano ricordo che le «riempie le orecchie» della «voce del vento» e di «tutta quella luce pura» e che immagina «davvero bellissima, senza fumi e fabbriche» quasi come un archetipico eden perduto. Piccola isola appartata come una scontrosa perla scaramazza flegrea del Golfo di Napoli, non a caso amata e mitizzata, in letteratura, da Elsa Morante: scrittrice ammiratissima da Ortese, al punto che ebbe a definirla, nel messaggio affidato in sua assenza ai giurati del premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante (assegnato nel 1988 al suo libro In sonno e in veglia), «il genio più alto di tutti i tempi italiani della donna». Con un passaggio di testimone che Lubrano coglie come una significativa restituzione e consegna ai procidani stessi, inducendo in essi - proiettati loro malgrado con il loro “scoglio” «nell’universo stellare dell’Arte universale» - «uno scatto in positivo di orgoglio».

Spiega Pasquale Lubrano, classe 1944: «Avevo sentito parlare di Anna Maria Ortese nel 1967, quando vinse il Premio Strega con il romanzo Poveri e semplici. L’incontro con le sue opere risale invece al 1987, allorquando la Adelphi cominciò a pubblicare tutti i suoi romanzi. Prima la riedizione de L’iguana nel 1986, poi la raccolta di prose e racconti In sonno e in veglia nel 1987 per la quale le era stato assegnato, nel mio paese di residenza, il Premio letterario intitolato alla Morante». Ed è proprio questa occasione la scintilla che fa divampare il fuoco di una passione accolta con grata amicizia a distanza dalla grande scrittrice che si può interpretare, sottolinea opportunamente La Porta nella sua prefazione, «anche come una storia d’amore – benché atipica -, connotata come un amore trobadorico per una persona assente, fisicamente inafferrabile, eppure ben presente in tutto quello che ha scritto». Continua Lubrano: «Nella speranza di poterla incontrare per un’intervista, lessi i racconti di In sonno e in veglia: una vera e propria folgorazione…Ma la Ortese non giunse a Procida, isola che lei conosceva e che aveva visitato anni addietro con l’amico Raffaele La Capria. Inviò però alla Giuria del Premio un messaggio struggente e carico di poesia che mi sollecitò a scrivere di lei. Nacque un articolo per la rivista “Città Nuova” che cercai di recapitare alla scrittrice, rinchiusa all’epoca nel suo appartamento di Rapallo. La Ortese mi rispose ringraziandomi e fu l’inizio di un dialogo a distanza. Seguirono ancora le mie lettere alle quali lei rispondeva sempre. Poi un lungo silenzio. Era il pomeriggio del 26 ottobre del 1991 quando, al telefono, per la prima volta udii la sua voce, limpida, asciutta, piena di un innocente stupore che mi rassicurò e mi dispose alla confidenza…».

Emblematica, per addentrarsi in questo tenace e a tratti toccante “dialogo a distanza” tra la scrittrice e il suo ammiratore letterario, l’esergo scelta da Lubrano Lavadera al libro, che restituisce ai lettori l’orizzonte privato di testi e contesti riverberato da questo piccolo ma prezioso corpus epistolare (poi donato dall’autore nel 2006, assieme alle sue pubblicazioni sulla scrittrice, al Fondo Ortese dell’Archivio di Stato di Napoli allora curato da Rossana Spadaccini). Una trama di affinità elettive intessuta, via via, di intersezioni intime, psicologiche e affettive parallele ai testi critici dell’autore sull’opera di Ortese dagli anni Ottanta fino alla morte, avvenuta il 9 marzo del 1998. L’epigrafe, tratta da «Poveri e semplici», dice infatti: «Il mio ideale: lavorare per l’umanità, mediante il mio lavoro di scrittrice, collaborare alla pace e al miglioramento degli uomini». Per l’interlocutore procidano, intriso della spiritualità trasformante di Chiara Lubich (fondatrice del Movimento dei Focolari), è una traccia illuminante quanto cruciale, sulla via di una intesa segnata sin dal primo momento da una laica religiosità che Ortese stessa, prendendo le distanze su questo punto dalla propria appartenenza alla sinistra marxista, così sintetizzava: «Il mondo non è materia: è Respiro, Sogno, Visione…non è di alcuno».

Ed è innanzitutto questo, prima ancora del valore est/etico della scrittura ortesiana, a colpire Lubrano Lavadera: l’«intensa esigenza spirituale» della scrittrice nella sua avventura artistica ed esistenziale; la sua solitaria «aspirazione a quella dimensione trascendente della vita che è l’amore per l’uomo, la solidarietà con il debole e l’oppresso»; la sua capacità quasi medianica di esplorare «gli sconfinati abissi dell’umanità» (e del creato tutto con le sue creature, anche animali, prediligendo sempre gli scartati, con una poetica cara all’attuale papa Francesco), e di penetrare con passione ed empatia assolute il “mistero doloroso” del cuore umano con una cognizione del dolore e una “coscienza d’amore” che permea, nella solitudine dei numeri primi spesso incompresa se non mortificata dal mondo, tutta la sua opera: in una dimensione di profonda verticalità, per usare una celebre definizione di Ferruccio Parazzoli, critico in alcuni suoi contributi (su “Vita e Pensiero” 5/2006 e 1/2007) verso la piatta orizzontalità di certa «narrativa dimezzata»  contemporanea, incapace di andare “dai tetti in giù” e “in su”: con un respiro e uno sguardo lungo di cui si sente tanto il bisogno, oggi.

«Non amo le masse né la cultura “ufficiale”.

Si vive male, ma non si mente almeno», confida Ortese a Lubrano in una lettera del 14 ottobre 1991; confessione che fa il paio con quella contenuta in un’altra missiva del 21 novembre 1989, dove si legge, con una punta di amaro disincanto: «Continuo a pensare di trovarmi al di fuori di questo tempo italiano e anche non italiano. Non mi aspetto riconoscimenti. E nemmeno li desidero o rimpiango». Nella lunga e paziente attesa, fino all’ultimo speranzosa (ma infine disattesa dalle circostanze della vita) di un auspicato incontro con la scrittrice di persona a Procida, Lubrano intanto studia, legge, scrive e penetra a fondo nella potente carica simbolica delle opere ortesiane, permeate da una parola chiave: anima. E si sofferma ad esempio sulla consapevolezza di Anna Maria Ortese che la bontà – parola desueta o, peggio, sbeffeggiata dal cinismo attuale -, espressione di una «dimensione trascendente della vita, troverà sempre opposizione tra quanti hanno assolutizzato il reale» o idolatrano la banalità del male con tutte le sue evidenti derive; come si legge in «Alonso e i visionari»: «L’uomo buono è un uomo perduto, come si dice, a questo mondo, e il suo vero martirio è l’allontanamento progressivo dalle persone che egli ama».

Parole dal timbro profetico, da parte di una intellettuale capace, come è stato osservato altrove, di «farsi carico della complessità del mondo e della densità del sentire», ma «senza semplificare e senza tagliare ciò che per significarsi ha bisogno di contraddirsi»; una scrittrice, giornalista e poeta, “zingara della parola” e del pensiero poetante, capace anche di generare visioni con occhi spalancati e insonni, lo sguardo teso oltre il visibile e l’intima convinzione, come si legge in un suo manoscritto conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, che «la bontà è la sola libertà dell’uomo. Tutto ciò perché la sua vera catena è la non bontà (il culto dei propri beni). Essere buoni è superare la forza di gravità». Ed è anche questa la radicale, laica, sorprendente religiosità in Anna Maria Ortese: sia da lettrice (onnivora, insaziabile, curiosa, per certi versi «rapace e imprevedibile»), sia da scrittrice “militante”, che intende la letteratura «come reato, un reato di aggiunta e mutamento» (come scrive lei stessa nella sua introduzione al «Porto di Toledo») e, insieme, come affilato strumento di conoscenza e interrogazione dell’umano. Un’attitudine riscontrabile ad esempio, ben oltre il denso corpus della sua opera letteraria, nell’originale e acuta rilettura ortesiana dei quattro Vangeli, dal titolo «Cristo e il tempo», scritta nel 1978 per la rivista «Ipotesi» di Rapallo: dove Gesù «è nient’altro che un semplice poeta e sovvertitore di ordini defunti», e dove le domande ultime e penultime sull’enigma del dolore, il senso del "mysterium iniquitatis", l’insensatezza del mondo e il silenzio della ragione sono inscritte dall’Autrice in un orizzonte di riflessione sull’eterno e sul tempo con un’acutezza mistico-teologica e letteraria (in consonanza con Jorge Luìs Borges: «forse un tratto del volto crocifisso si cela in ogni specchio: forse il volto morì, si cancellò, affinché Dio sia tutti») che ci interpella ancora oggi.

Fortunatamente quest’ultimo testo, nell’esemplare postillato dalla Ortese stessa, è stato poi opportunamente dissepolto dall’oblio nel bel libro «Da Moby Dick all’Orsa Bianca» (Adelphi, 2011), raccolta di scritti occasionali sulla letteratura e sull’arte, pensieri e lettere della Ortese dal 1939 al ’94, curato con la consueta passione da Monica Farnetti, che vale la pena rileggere, con l’opera omnia ortesiana, magari con quella «purezza di sguardo e un animo libero capace di volare sulle vette raggiunte da Anna Maria Ortese» auspicati da Lubrano, nel suo libro di restituzione delle emozioni e riflessioni ispirategli da una figura femminile in cui «amore e dolore» sono «fusi in una musica che buca l’anima». Ed è allora anche questo uno dei meriti del libro di Lubrano: l’invito, auspicabile soprattutto tra i giovani studenti, alla (ri)lettura di Ortese, tra le più geniali protagoniste del Novecento. Partendo anche dalle sue lettere, oltre che dai suoi libri, dal detto e soprattutto non detto: per approfondire così un “ritratto intimo” dell’intellettuale, come ha fatto qualche anno fa l'avellinese Adelia Battista con i suoi libri e in particolare con il suo volume «Ortese segreta» (Minimum Fax, 2008): che proprio grazie a una frequentazione iniziata in forma epistolare, per portare a termine una tesi di laurea e destinata poi a trasformarsi in una vera amicizia, ci racconta con grande presa emotiva il percorso umano e intellettuale dell’autrice de «Il mare non bagna Napoli», dagli anni dell’apprendistato nel capoluogo partenopeo al doloroso allontanamento dalla città fino all’esilio volontario di Rapallo.

Un percorso che, come avviene per tutti i grandi classici, non finisce mai di dire quel che ha da dire, e continua a parlare a ciascuno e risuonare oltre l’attualità, in ogni tempo: come dimostra un altro contributo di qualche anno fa della filosofa napoletana Ester Basile, con il suo libro «Anna Maria Ortese» (edito nel 2014 da Ali&No di Perugia, nella collana “Le farfalle” diretta da Clara Sereni, con prefazione di Lucia Stefanelli Cervelli, postfazione di Marosia Castaldi e numerose testimonianze), frutto di passioni consolidate e di un lavoro di ricerca proprio nell’Archivio di Stato napoletano: preziosa “Casa delle Storie” punto di riferimento per gli studiosi. Perché i nuclei tematici ortesiani fondanti, come quelli indagati da Lubrano nel suo libro – e tra questi, anche l’erranza e la diversità, l’esilio (metaforico e reale) e l’utopia – declinati nella stupefacente molteplicità della sua necessaria, civile letteratura interpellano con forza la contemporaneità.

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