Giuseppe Marotta, 60 anni dopo la morte «L'oro di Napoli» oscurato

Il peso del giudizio negativo di Pier Paolo Pasolini

Giuseppe Marotta
Giuseppe Marotta
di Antonio Saccone
Giovedì 12 Ottobre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 13 Ottobre, 06:36
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Non è improbabile che sull'accantonamento di Giuseppe Marotta, di cui ricorre il sessantesimo anniversario della morte, abbia in qualche modo pesato il giudizio negativo di Pier Paolo Pasolini. A fornire allo scrittore friulano il primo contatto con Napoli, la città di Marotta, era stata una canzone composta da quest'ultimo, «Mbraccio a te», cantata da Sergio Bruni e Jula de Palma al Festival di Napoli del 1959. Una sera dell'estate di quell'anno, girando a piedi nudi per le strade del lungomare, Pasolini è stordito dagli schiamazzi di scugnizzi che urlano le parole di quella canzone: «'Na frangetella e' nuvole/ na vranca e stelle chiare». L'anno successivo intreccia con l'autore dell'Oro di Napoli una vera e propria polemica, identificando in lui l'interprete di triti luoghi comuni sulla napoletanità legata al folclore macchiettistico, alla complicità qualunquista. Ma, al di là della disistima pasoliniana, lampeggia nel curriculum creativo del prolifico Marotta, accanto all'invenzione narrativa, l'insegna di compositore di testi di canzoni, consegnati per lo più al dialetto, come quella di autore per il cinema.

A configurare il profilo della produzione letteraria dello scrittore, nato a Napoli il 5 aprile 1902, è innanzitutto il forte legame con l'attività giornalistica, intensa e variegata, che si svolge innanzitutto a Milano, nelle redazioni dei giornali della Rizzoli, a contatto dei giovani ma già scaltriti Cesare Zavattini e Giovanni Guareschi, che lo porterà, poi, a divenire collaboratore fisso nelle sedi romane della «Stampa» e del «Corriere della Sera». La modalità comunicativa prediletta da Marotta è, per sua esplicita ammissione, l'elzeviro, configurato sull'andamento dell'affabile divagazione, della short story, come tale accordabile con l'esercizio narrativo, che decolla negli anni Quaranta con romanzi e raccolte di racconti, intessuti su un'ironica malinconia e un fervido realismo descrittivo. Si è parlato, per queste prime opere (tra cui spiccano Questa volta mi sposo, 1940; La scure d'argento, 1943; Nulla sul serio, 1946), di un umorismo di specie anglosassone, con riferimento a J.K. Jerome e P.G. Wodehouse. Il successo di pubblico, decretato da tali narrazioni, sarà consolidato e amplificato nel 1947 con la pubblicazione della raccolta di racconti L'oro di Napoli, da cui sarà tratto l'omonimo film di De Sica, alla cui sceneggiatura collabora lo stesso Marotta, insieme a Zavattini.

Nella prefazione l'autore spiega il rapporto di speculare reciprocità che lo lega alla sua città, fondale e, insieme, motivo principe delle storie che compongono il volume: «Napoli, io, certe pietre e certa gente: ecco quanto, forse, si troverà in questo libro. Nella vita di ogni uomo di penna, narratore, poeta, giullare o quel che è, arriva sempre un momento (che può durare poco o molto) in cui la sua materia decide di somigliargli, rivelandosi esclusivamente composta di fatti e di volti che gli appartennero o che lo sfiorarono. Ho vissuto molti anni lontano dal mio paese, volendo segnalarmi nel mondo della carta stampata, assai più accessibile dal nord; d'improvviso Napoli e la mia giovinezza e persone e vicende che la abitarono o che vi si affacciarono appena, si sono messi a chiamarmi, proprio con un'insistenza da gente dei vicoli partenopei, tenera e perentoria; o meglio mi hanno fatto sapere che non ci eravamo separati mai, che sempre le avevo portate con me».

Sulla tematica napoletana Marotta innesta anche la rappresentazione corale offerta da San Gennaro non dice mai no (1948), dagli Alunni del sole (1952, nome prestato poi non a caso al complesso di Paolo Morelli) e dagli Alunni del tempo (1960): queste ultime due «interminabili cicalate», per dirla con Goffredo Fofi, «in cui l'autore mette in scena i suoi personaggi, e si diletta a inventarli facendo finta di ascoltarli, facendo finta che essi siano reali, con tanto di nomi cognomi e soprannomi. Sulle soglie dei bassi, nel vicolo, nella piazzetta», tanto da ispirare anche il De André di «Don Raffae'»: «La chiave del brano me l'ha data gli Alunni del sole di Marotta, dove c'è questo don Vito Cacace che è l'intellettuale della zona e alla sera raduna tutti quanti e gli legge il giornale, spiegando che cosa succede», spiegò il cantautore.

Non manca il filone narrativo dedicato all'altra sua «patria», Milano (A Milano non fa freddo, del 1949; Mal di galleria, 1958; Le milanesi, 1962). Se si aggiungono le pièces teatrali, la critica cinematografica, esercitata sulle pagine dell'«Europeo» (dando ampio spazio ai prodotti di buon artigianato registico), l'attività di soggettista e sceneggiatore cinematografico, la rilevante presenza nell'industria culturale, non si può non auspicare la rimozione dell'oblio in cui è stata relegata, ad onta dei tanti lettori che ne sancirono la notorietà, l'opera di Marotta. «La critica mi tiene il broncio, come se io l'avessi, in qualche indimenticabile modo, offesa», si lamentò lui. E le cose non sembrano essere cambiate, nemmeno il sessantesimo anniversario della sua nascita ha meritato una qualche attenzione. E non c'è un Pasolini a polemizzare con lui, ma il silenzio di personaggi ben meno autorevoli. Di entrambi. 

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