Il libro di Carlo Vecce: «Il Leonardo da Vinci segreto: scugnizzo e genio fragile»

L'italianista rilegge la vista del grande artista

Il quadro
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di Ugo Cundari
Sabato 13 Aprile 2024, 06:58 - Ultimo agg. 14 Aprile, 07:25
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Dopo aver scoperto che la madre di Leonardo era una schiava circassa liberata alla fine del 1452 da un atto del notaio e amante ser Piero da Vinci, vicenda raccontata in Il sorriso di Caterina, l’italianista Carlo Vecce ha pubblicato una lunga biografia sul genio italiano, Leonardo, la vita (Giunti, pagine 660, euro 22) presentato ieri a Napoli alla fondazione Foqus. Anche stavolta l’autore si è basato su documenti storici inediti o poco noti, dalle dichiarazioni fiscali ai contratti alle annotazioni di ambasciatori. Ne viene fuori il ritratto di un uomo fragile, spesso insicuro.

Come trascorse l’infanzia Leonardo, secondo la sua ricostruzione, Vecce?

«Fino a 10 anni come uno scugnizzo.

Era selvaggio, ribelle, inquieto. Abbandonato a sé stesso, spesso scalzo e vestito di abiti modesti, viveva insieme al nonno, il padre del notaio, molto anziano, e la madre, più selvaggia di lui. Non andava a scuola e tutto quello che imparava, lo faceva da autodidatta, compreso scrivere da mancino non corretto che si muove da destra a sinistra».

Che rapporto aveva con il padre?

«A differenza di quanto fino ad oggi è stato ritenuto, il padre, che ha conoscenze influenti in ogni campo, cercò di aiutarlo in tutti i modi: di nascosto, quel figliastro gli diede più di un motivo di imbarazzo, se non di vergogna».

Per esempio?

«Quasi sempre non finiva le opere commissionategli e, a cominciare dal 1476, a 24 anni, fu processato più di una volta per sodomia, pratica allora diffusa ma per la quale si poteva essere condannati a morte. Forse conobbe anche la prigione, di sicuro fu mandato più di una volta sotto processo. Non fu mai condannato ma il marchio d’infamia del sodomita gli rimase appiccicato addosso».

Perciò a 30 anni fuggì via?

«Scappò da Firenze, dove era un fallito, incapace di rispettare scadenze e impegni, il figlio bastardo di un’ex schiava. A Milano tentò di entrare a corte di Ludovico Sforza ma non gli riuscì e visse di stenti. Gli ci vollero 5 anni per farsi apprezzare, e non per le sue capacità artistiche».

Perché?

«Il duca era ossessionato dalla guerra e dalle armi, non gli importava niente dei pittori. Quando Leonardo lo capì iniziò a mandargli progetti di bombarde enormi, carri armati, artiglierie multiple, ponti mobili, fortezze volanti, macchine di difesa sulle mura, complessi sistemi di incastri lignei, sottomarini. Sono disegni bellissimi e irrealizzabili, Leonardo non aveva competenze da ingegnere, ma bastarono a fare colpo sul duca, a farsi apprezzare come artista. Da lì iniziò la sua fortuna».

Rimase un genio fragile.

«Quello che emerge dai documenti è la figura di un uomo in perenne lotta per affermarsi, sempre inquieto e insicuro, più di una volta non all’altezza delle aspettative, come per “L’ultima cena” dove l’intonaco inizia a sgretolarsi poco dopo la realizzazione».

Che aveva di particolare il metodo di lavoro di Leonardo?

«A differenza degli altri pittori lui disegnava direttamente sulla tavola di legno come se fosse un foglio di carta e poi ritoccava, modificava, ricominciava da capo. Non finiva le sue opere? È vero, ma solo perché innamorato del processo creativo, che non voleva interrompere. Per questo di ogni opera faceva fare decine di copie. In questo era simile agli artisti americani dell’avanguardia del Novecento».

Per esempio?

«Andy Warhol, che fra l’altro ha lavorato su “L’ultima cena” leonardesca. Entrambi giocano sulla riproducibilità dell’opera d’arte. Con Leonardo tutto nacque con la “Vergine delle rocce” dipinta per una confraternita religiosa. La volle anche il duca di Milano, uguale e identica, e così Da Vinci ne fece una specie di fotocopia. Medesime richieste per dipinti come la “Gioconda” e “Salvator Mundi” e sempre da committenti importanti, i re di Francia, i principi italiani. Tutti volevano il loro Leonardo e lui non scontentò nessuno sorvolando, naturalmente, sul fatto che erano delle copie».

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