Geo Barents, la nave Ong a Salerno: «In fuga dalla guerra, ho subito violenze in Libia»

Sono tutti giovanissimi, come una mamma di 19 anni scappata dalla Nigeria con i suoi quattro bambini piccoli

Lo sbarco a Salerno
Lo sbarco a Salerno
di Petronilla Carillo
Lunedì 12 Dicembre 2022, 06:20 - Ultimo agg. 11:20
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C’è chi si fa un selfie con alle spalle il castello Arechi e chi, invece, resta in disparte ad attendere il proprio turno per scendere ed essere identificato. Gioia e speranza si alternano al ricordo delle torture e dei sacrifici fatti per lasciare il proprio Paese. Ciascuno dei 164 adulti sbarcati ieri dalla Geo Barents porta con sé un bagaglio di vita «importante». Nonostante siano adulti, sono tutti giovanissimi, come una mamma di 19 anni scappata dalla Nigeria con i suoi quattro bambini piccoli. Se per lei ora la vita può ricominciare proprio a partire dai suoi figlioletti, il sogno di un’altra giovane mamma del Camerun si è infranto strada facendo: fuggita con la sua bimba da un marito violento ha dovuto seppellire la piccola nel deserto durante il viaggio dall’Algeria alla Libia. Per un gruppetto di quattro amici del sud Sudan, tutti giovanissimi, ci vorrà del tempo, invece, per dimenticare le sevizie e le torture subite. La paura resta in agguato, sempre. Alcuni dei migranti salvati in mare da Medici senza frontiere raccontano agli operatori di aver imparato a dormire con gli occhi aperti per essere sempre pronti a difendersi. 

Quando gli operatori hanno dato l’annuncio venerdì dello sbarco autorizzato a Salerno, molti sono esplosi in un grido di gioia.

Altri sono rimasti in silenzio, ad attendere il momento, con lo sguardo fisso verso il mare. Tra questi un gruppo di amici partito dal sud Sudan, giovanissimi, alcuni anche minorenni, che nel loro Paese hanno lasciato le proprie famiglie. Sanno che le possibilità di rivedere i propri cari sono poche e sanno anche di essere dei fortunati perché hanno avuto la possibilità di fuggire dalla violenza di una guerra, iniziata nel 2014, e che ha segnato una buona parte della loro vita. Il più grande di loro, appena diciottenne, racconta di aver lasciato le violenze e le razzie del suo villaggio di sfollati nel nord del sud Sudan per subire le torture e gli abusi sessuali dei carcerieri libici. Lui per quattro volte ha tentato il viaggio della speranza e per quattro volte è stato riportato indietro dalla guardia costiera libica, messo in carcere ha subito violenze di tutti i generi. Per lui, ammette, dimenticare è difficile. Ma ci prova e così, durante le ore di navigazione ha chiesto ad una operatrice che li accudiva di imparare l’italiano. Per tutta la notte hanno provato a ripetere le formule di saluto in italiano. Vogliono arrivare in un posto dove sanno di poter essere protetti e di poter avere la possibilità di ricominciare. 

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C’è anche chi, come la giovane mamma 32enne del Camerun, che in Libia ha trovato una «sorella» che l’ha aiutata a lavorare, a guadagnarsi i soldi per poter partire. Una donna che ha anche convinto suo marito a darle un aiuto economico. Ma il suo viaggio è stato tutt’altro che semplice: alle spalle un matrimonio con una persona violenta che l’ha picchiata anche quando era incinta, facendole perdere ben due bambini, lungo la strada la morte della sua ultima nata per una improvvisa malattia che l’ha colpita nel viaggio tra l’Algeria e la Libia. Nel suo cuore un unico desiderio: quello di riportare in Europa gli altri due figli ora affidati alla madre. Una storia dura la sua, segnata da una grande rete di solidarietà che, comunque, le è stata di aiuto. La prima ad aiutarla, in Camerun, è stata una sua amica che le ha dato un po’ di soldi sufficienti a lasciare il Paese con la piccola appena nata. Dal Camerun è andata in Nigeria. Qui ha lavorato e, appena ha potuto economicamente, si è trasferita in Niger. Poi il viaggio attraverso la via del deserto verso la Libia ma, proprio nell’attraversare la Nigeria, la sua bimba si ammala e, senza cure, muore in pochi giorni. A lei lo straziante corpo di seppellire quel corpicino nel deserto. Poi l’arrivo in Libia dove, per fortuna, non è finita nelle mani dei carcerieri ma è riuscita a lavorare e a partire. Con il cuore spezzato dal dolore perché quel viaggio lo aveva fatto proprio per dare un futuro alla sua piccola morta.

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