Antonio Albanese, Cento domeniche: ​«Un film sugli ultimi? In realtà sono i primi»

«Ho sentito il bisogno di raccontare una realtà che ha coinvolto in maniera diretta o indiretta centinaia di migliaia di persone in tutta Italia»

Antonio Albanese sul set di Cento domeniche
Antonio Albanese sul set di Cento domeniche
di Titta Fiore
Martedì 14 Novembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 15 Novembre, 09:03
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Un film dalla parte degli ultimi? «Non ultimi, primi. In Italia ci sono più di cinque milioni di operai, sono loro ad aver sostenuto il nostro Paese e da anni vengono abbandonati. Questo film è un omaggio a chi lavora duro e un atto di giustizia». Accantonate le battute corrosive di Cetto Laqualunque e i toni dolcemente imbranati del protagonista di «Come un gatto in tangenziale», Antonio Albanese torna dietro la macchina da presa, regista e attore, per raccontare con «Cento domeniche» una storia di fiducia e tradimenti che sarebbe piaciuta a Ken Loach o a Stéphane Brizé. La storia di una piccola comunità di brava gente, operosa, onesta, travolta da uno tsunami improvviso, il crack della banca del paese, che spazza via sogni e prospettive di futuro.

Dunque Antonio, si chiama così, ex operaio specializzato di un cantiere nautico in una cittadina del Nord, vive con serenità il piacere delle piccole cose: gioca a bocce con gli amici, si prende cura della madre anziana (Giulia Lazzarini), frequenta una donna sposata di cui vorrebbe innamorarsi se solo lei glielo permettesse, è in ottimi rapporti con la moglie separata (Sandra Ceccarelli) e stravede per l'unica figlia, Emilia (Liliana Bottone).

Quando la ragazza gli dice che vorrebbe sposarsi, pensa di coronare finalmente il suo sogno: regalarle un matrimonio da favola con i risparmi di una vita. Ma nella banca che custodisce i suoi soldi e che ha sempre considerato «un confessionale» perché conosce vita, morte e miracoli di tutti, i dipendenti diventano improvvisamente sfuggenti, i direttori cambiano di continuo e l'impresa di pagare il matrimonio diventa sempre più ardua. Fino al drammatico epilogo. 

Dice Albanese: «Ho sentito il bisogno di raccontare una realtà che ha coinvolto in maniera diretta o indiretta centinaia di migliaia di persone in tutta Italia. Sarà che da giovane ho lavorato in fabbrica e ho vissuto il mondo operaio, conosco la fatica fisica, ma volevo far sapere che esiste questa enorme ingiustizia. Mi sono detto che ero obbligato a mostrare le conseguenze di certi tradimenti, dei comportamenti fraudolenti di alcuni responsabili di istituti bancari che hanno gettato nella disperazione tanta gente. Non denuncio il sistema bancario in generale, piuttosto il tradimento compiuto da pochi individui avidi e senza scrupoli in grado di rovinare i clienti meno informati».

Il titolo del film, prodotto da Palomar e Leo, presentato alla Festa di Roma e in sala dal 23 novembre distribuito da Vision, è un altro omaggio a un passato di integrità e rigore: «Un amico di mio padre diceva sempre: La mia casa l'ho chiamata “Cento domeniche”, il tempo che ho impiegato a costruirla utilizzando i weekend in cui non lavoravo. Ecco, di uomini così è fatto il mio film. Ho sentito il bisogno di raccontare la normalità senza essere eccentrico e voglio dedicare il film alla gente onesta che non si risparmia». Modelli? «Guardo tanto cinema, ma non ho riferimenti particolari, vado per la mia strada. Certo, non è stata una passeggiata affrontare questo progetto, con il mio complice di sempre, Piero Guerrera, abbiamo lavorato intensamente al soggetto e alla sceneggiatura, volevamo raccontare una verità, fino in fondo. E per farlo mi sono documentato per mesi, ho letto libri, ho parlato con giornalisti economici ed esperti del settore e ho chiesto la consulenza di una psichiatra che assiste tante persone annichilite da questa tremenda situazione».

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Da «Giù al Nord» ai film di Soldini e Amelio, più volte Albanese si è dedicato ai temi del lavoro: «Vero, li ho vissuti ed è come se li avessi tatuati sulla pelle. Volevo immedesimarmi nella verità, nel realismo più assoluto. Il protagonista mi assomiglia molto. Anch'io ho fatto l'operaio, ho una figlia di trent'anni e una madre novantenne. E poi, i luoghi del film sono quelli di Olginate, in provincia di Lecco, dove sono cresciuto e mi sono formato, ho interpretato un personaggio nel posto in cui ho davvero lavorato, abbiamo utilizzato anche lo stesso tornio. Insomma, l'uomo del film sarei potuto essere io». 

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