Bob Dylan - The complete Budokan: in Giappone: stile Las Vegas

Arriva il cofanetto deluxe che celebra il 45esimo anniversario dei primi concerti in Giappone

Bob Dylan - The complete Budokan: la copertina del cofanetto
Bob Dylan - The complete Budokan: la copertina del cofanetto
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Sabato 18 Novembre 2023, 08:00 - Ultimo agg. 17:00
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I periodi creativi di Bob Dylan sono più numerosi di quelli di Pablo Picasso. Alle mutazioni simboliche dei colori del genio di Malag l'uomo di Duluth risponde con repentini cambi di rotta sonori, testuali, persino religiosi, e nessuno pensi che una conversione, una controconversione, un arrangiamento country o reggae, un piccolo combo o una grande formazione siano cambiamenti da poco. Ce lo ricorda la strenna natalizia dylaniana e dylaniante (per il prezzo, intorno ai 180 euro nella confezione con i quattro cd, il libretto fotografico, le copie anastatiche dei biglietti e dei poster originali) di «Bob Dylan - The complete Budokan», cofanetto deluxe che celebra il quarantacinquesimo anniversario dei primi concerti di Bob Dylan in Giappone, il 28 febbraio e 1 marzo 1978, con 58 brani, di cui 36 performance inedite.

Innanzitutto: sì, ricordate bene, «Bob Dylan at Budokan» è il titolo di un doppio lp dal vivo, uscito nel 1979, ma volete mettere 22 brani con 58, una selezione con la registrazione integrale?

E poi: sì, ricordate ancora bene, la critica non ha mai amato pazzamente quel disco che, per «Rolling Stone», sancì l'inizio del «periodo Las Vegas» di mister Zimmerman, confermando la svolta pop rock dell'anno precedente, scandito da un lavoro, egualmente contestato, come «Street legal».

Ma, ripetiamolo insieme dieci volte al giorno a voce alta, il peggior disco di sua Bobbità contiene maggior motivo di interesse, e studio, e accanimento terapeutico, dei migliori dischi di un bel pezzo dell'universo musicale coevo, ma anche di quello prossimo venturo, in linea di massima.

Qui, ad esempio, l'artista che mise l'arte nel jukebox e la rivolta sociale nella canzone, per poi abiurare il ruolo di menestrello generazionale e diventare un camaleonte in muta perenne, uccide il proprio mito operando sul fronte musicale. Ad accompagnarlo sono i musicisti di «Street legal», in formazione extralarge: Billy Cross (chitarra solista), Ian Wallace (batteria), Alan Pasqua (tastiere), Rob Stoner (basso), Steven Soles (chitarra), David Mansfield (pedal steel guitar, violino, mandolino, chitarra, dobro), Bobbye Hall (percussioni) e le coriste, fondamentali, Helena Springs, Jo Ann Harris e Debi Dye. Fondamentale il ruolo di Steve Douglas, che al sassofono mostra la voglia di guardare a Bruce Springsteen (e a Clarence Clemons, quindi), mentre al flauto firma una disgraziatissima esibizione su «Mr. Tambourine man» (e pure di altri brani), che pure ha trovato interpretazioni recondite, come l'equazione tra il protagonista del titolo ed il pifferaio di Hamelin. Un po' didascalica, come ipotesi.

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Il «periodo Las Vegas» guarda, naturalmente, al re Elvis Presley, ma fra le influenze, forse incongrue, del disco ci sono anche Bob Marley e l'Eric Clapton in levare (persino «Don't think twice, it's all right» si traveste di reggae). Dopo dieci anni di assenza dal palco, il rockautore destinato a vincere qualsiasi cosa (Nobel, Oscar, Pulitzer, Grammy...) tranne la coppa del nonno si rimette on the road e dimentica l'avventura burlesque e libertaria della «Rolling thunder revue». Ha bisogno di dollari e mette all'incasso un «world tour» di 114 concerti in Giappone, Australia, Europa, Usa. Veste una tutina bianca, cerca di compiacere il pubblico con ottoni e coriste che partono male e finiscono alla grande, si fa salsero, santaneggia, gioca al funky, chiede alla band di guardare alla lezione di Booker T & The MG, alleggerisce sino a scarnificare alcuni suoi cavalli di battaglia, poi però è come se ci prendesse gusto, come se avesse nuovamente confidenza con il format concerto, e allora si infuocano «It's alright, ma (I'm only bleeding)» e «Oh, sister». E questa progressione, questo incattivirsi di toni agli inizi più disinvolti nella lunga distanza del cofanetto si fa più evidente, come nelle doppie versioni dello stesso pezzo, analizzate al microscopio dai fedeli dylaniani e dylaniati per coglierne le differenze.

A proposito, ma che bello quando Dylan scandiva ogni parola lasciandoti seguire perfettamente il testo. A proposito, ma che bello quando Dylan borbotta minaccioso i suoi versi nel «Neverendingtour», lasciandoti a chiedere che diavolo sta cantando: domani sera sarà al Fillmore di Filadelfia, beato chi ci sarà. Qualche settimana fa in scaletta è comparsa persino «Dance me to the end of love» di Leonard Cohen. 

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