Vecchioni: «Fare il padre
è il mestiere più difficile»

Roberto Vecchioni
Roberto Vecchioni
di Federico Vacalebre
Lunedì 28 Novembre 2016, 19:10 - Ultimo agg. 19:11
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 Il mercato prenatalizio si affolla di cofanetti ed edizioni deluxe, non sempre necessarie, spesso pensate solo per far cassa sulla pelle dei fans. «È per questo che ho lottato per un prezzo basso, 22 euro, appena superiore al solo cd, così che chi ha già il libro lo può regalare», spiega Roberto Vecchioni parlando del box in cui la Einaudi ha raccolto il suo ultimo libro La vita che si ama. Storie di felicità e il suo nuovo cd, «Canzoni per i figli».
Un lavoro a tema, prof.
«Certo, la carta raccoglie racconti dedicati ai miei figli Francesca, Carolina, Arrigo e Edoardo, scritti per loro, parlando a loro, fino a farmi scappare un ritratto di mio padre, Aldo».
«L’uomo che si gioca il cielo a dadi», suggerirebbe il titolo di una sua vecchia canzone.
«Sì, le storie di famiglia mi servono come suggerimenti per imbrigliare la famiglia, sono pagine da spacciatore di sogni che sanno farsi ricordi, sono fotogrammi del tempo verticale in cui sento di vivere con i miei cari, dove - se sai tenere insieme passato, presente e futuro - nulla si perde, tranne, forse, la tua lucidità, non sempre necessaria».
Dicevamo del collegamento tra libro e disco.
«Lucio Fabbri ha regalato nuovi, scarni, arrangiamenti a pezzi che avevo scritto per i miei figli, sui miei figli, sul mestiere di padre, ben più difficile di quello di cantautore, di professore, di scrittore. “Figlia” e “Le rose blu” chi mi segue da tempo le conosce, le altre decisamente meno. Penso a “Canzone da lontano”, ninna nanna scritta per Francesca, a “Un lungo addio”, per Carolina. Racconti e canzoni sono quasi un tutt’uno, c’è il mio sentirmi buffo nell’aspettarli quando la notte tardavano a rientrare a casa, libertario spaventato dalla loro libertà, esistenzialista terrorizzato dall’esistenza nella stessa misura in cui ne è stregato».
Qui spunta sua madre.
«E il padre si finge figlio di nuovo. Quanta tenerezza nel rivolgermi a mamma, nel riconoscerle il dono della dolcezza, nel confessare la mia inadeguatezza anche nell’addio».
Ne viene fuori un ritratto di una famiglia lontana dagli stereotipi italiani.
«Ma profondamente, modernamente italiana, in cui non ci sono ruoli preassegnati, sessi o gender predefiniti. Mia moglie Daria ha dato ai ragazzi la concretezza che bilanciava il mio elogio del sogno, dell’utopia. Loro ridevano se cercava di minacciarli dicendo: “Poi lo dico a papà”. La famiglia è accoglienza, mai diffidenza, è amore, che è una cosa complicata sempre, ma mai stereotipato come si vorrebbe».
Il Nobel a Dylan, la morte di Cohen... si riparla di cantautori che hanno fortemente ispirato anche lei.
«Bob meritava quel premio sin dagli anni Sessanta. E Leonard, che ho anche provato a tradurre e a cantare, pure. Ma in Italia la letteratura è nelle mani dei soloni dell’accademia, per cui significa libri, e non parola. E la parola è scritta, ma anche cantata, recitata, scandita a ritmo... I censori anti-Dylan si rifugiano in una classicità mummificata, non ricordano che il teatro greco era musicale, che sulle colonne dei templi c’erano colori forti che oggi definiremmo pop, che gli affreschi più belli a Pompei sono quelli porno. Vorrebbero lasciare la vita fuori dalla letteratura, ma l’unica letteratura possibile è la vita».
Come sta «Il suonatore stanco» a 73 anni? In quella canzone passava il tempo a rimirare foto dell’uomo di Duluth aspettando le offerte indecenti dei discografici.
«Sta bene, come il bandolero di un altro pezzo, è molto meno stanco.

Sarà che non ho più nulla da perdere, che i discografici non esistono più, che essendo l’unico in Italia ad aver vinto Sanremo, Festivalbar e Premio Tenco oggi ho traguardi ben diversi, come, appunto, saper parlare, anche attraverso racconti e canzoni, ai miei figli, ai miei genitori, a me stesso».

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