Salvatore Di Giacomo e il primato della canzone: 90 anni fa la morte del poeta di CantaNapoli

A novant’anni dalla scomparsa il sommo poeta di cantaNapoli e le figure dei suoi compositori fanno riflettere sull’eterno dibattito tra cultura «alta» e «bassa»

Salvatore Di Giacomo
Salvatore Di Giacomo
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Sabato 30 Marzo 2024, 08:00 - Ultimo agg. 19:21
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Il mondo di Salvatore Di Giacomo, pur aulico e antico, non è un paese per vecchi, motivo per cui vale la pena riparlare, per una volta ancora, e poi ancora, e poi ancora, di lui, approfittando del novantesimo anniversario della sua scomparsa, il 5 aprile 1934. 

Simbolo assoluto di cantaNapoli, fu medico fallito, giornalista, bibliotecario, saggista, drammaturgo, uno dei massimi poeti italiani del Novecento. E canzonettaro, grazie a dio, altrimenti nessuno lo ricorderebbe quasi più, anche se la sua «Assunta Spina», è titolo che ha debuttato sui palcoscenici dell’800 per conoscere la gloria del cinema muto, poi di quello a colori, poi della fiction televisiva. Pasolini, studioso di letteratura dialettale, gli deve l’intuizione di dar voce alla «meglio gioventù». Mussolini in un raro accenno di lucidità voleva farlo senatore a vita, ma i suoi sgherri, a confermare di che pasta fossero fatti, bloccarono la proposta urlando: «Mergellina non deve entrare in Parlamento».

Basterebbe «Era de maggio», nostalgica come un fado cosciente di rimpiangere qualcosa mai esistita, ad assicurargli la fama: «incanto di elementi primevi» scrisse Francesco Flora, «meglio di qualsiasi canzone dei Beatles» gli fece eco più di un secolo dopo Lucio Dalla, cullandosi sulle musiche di Pasquale Mario Costa (Taranto, 24 luglio 1858 – Montecarlo, 27 settembre 1933), uno dei grandi «stranieri», anzi «cafoni» di cantaNapoli, compositore-star in mezza Europa, che con Di Giacomo firmò anche «Catarì», «Napulitanata», «Luna nova», «Oi marena’», «Oje Caruli’», «Oilì olilà».

Altro sodalizio storico, come Lennon & McCartney, Rodgers & Hart, Brecht & Weill, Battisti & Mogol, per essere chiari, è quello con l’abruzzese Francesco Paolo Tosti (Ortona, 9 aprile 1846 – Roma, 2 dicembre 1916), allievo di Mercadante e autore di romanze che fecero il giro del pianeta, meritandogli di diventare maestro di canto alla corte d’Italia e baronetto in Inghilterra (sì, proprio come i Beatles, per tornare sul paragone), ma anche lui oggi ricordato piuttosto per «Marechiare».

Appena un gradino sotto la collaborazione con il calabrese Vincenzo Valente (Corigliano Calabro 21 febbraio 1855 – Napoli, 6 settembre 1921), autore di gran parte del repertorio di Maldacea e di operette di successo, ma sopravvissuto nella memoria collettiva per «’E cerase» e «’A sirena». 

Roberto De Simone, che a Di Giacomo ha dedicato studi e un intenso spettacolo, accusa questa stagione di aver distrutto «le espressioni autonome di canto», ovvero di essersi asservito all’industria editoriale, ma ancor più ad un bisogno sociale e politico, che cercava nel dialetto un segno dell’identità già perduta. L’ex capitale culturale si consolava con le canzoni? Probabilmente, ma il popolo quelle canzoni le faceva sue, spesso ignaro o dimentico, di come a esso appartenessero prima dei «furti», o «citazioni» e «rielaborazioni» che dir si voglia, compiuti da autori di vaglia. Il poeta che seppe raccontare l’universo plebeo come quello piccolo borghese è centrale nella storia della canzone napoletana, e quindi italiana, grazie anche al contributo di altri musici sopraffini come Enrico De Leva (Napoli, 19 gennaio 1867 – 28 luglio 1955), che firmò un’opera diretta al debutto da Toscanini, ma soprattutto «’E spingole frangese» (tra quei «furti» di cui si parlava prima); Eduardo Di Capua («Carcioffolà»); Salvatore Gambardella (Napoli 17 novembre 1871 – 29 dicembre 1913), compositore autodidatta che fischiettava motivi che altri mettevano sulla carta, amato da Puccini e Mascagni per perle come «’E trezze ‘e Carulina», parole di Di Giacomo, ma anche per «’O marenariello» (versi di Gennaro Ottaviano) e «Furturella» (Cinquegrana); Francesco Buongiovanni (Napoli 24 settembre1872 – Roma, 4 aprile 1940), autore delle note di un classicissimo come «Palomma ‘e notte»; Rodolfo Falvo (Napoli 7 luglio 1873 – 4 dicembre 1937), papà di «Canzone a Chiarastella»; E. A. Mario («Mierolo affurtunato»).

Insomma, don Salvatore fu poeta ed intellettuale di rango, eternato dalle sue canzoni, di cui qualche volta pure si vergognò. I suoi versi furono spesso musicati da compositori colti, anche loro ormai eseguiti solo per il loro repertorio canoro. Potrebbe servirci di lezione nel dibattito su cultura «alta» e «bassa», su chi sia giusto invitare all’università, su come sia mobile la scrittura della lingua napoletana riflettendo sul suo bisogno di aggiornarsi alla parlata corrente, passando dall’antiquato uso dell’articolo «lu» e «lo» al corrente, ancora oggia, «’o». 

Ps. In tutta la sua opera, così profondamente partenopea, Di Giacomo ha usato solo tre volte la parola Napoli e mai la parola Vesuvio.

Ps.bis Sempre più rare sono le ristampe delle opere letterarie di don Salvatore, mentre non conoscono crisi, nonostante tutto, le riprese delle sue canzoni, anche se il numero di quelle frequentate si fa sempre più ristretto. Agli ultimi veri paladini di cantaNapoli il compito di evitare che anche questo scempio si compia. 

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