Aurelio De Laurentiis e la festa scudetto: «Ma il calcio deve cambiare, c'è chi gioca con i conti in rosso...»

«Il calcio è programmazione, noi abbiamo sempre fatto le cose come dovevano essere fatte»

Aurelio De Laurentiis
Aurelio De Laurentiis
di Pino Taormina
Martedì 7 Marzo 2023, 07:00 - Ultimo agg. 20:13
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«La festa scudetto? La città impazzirà, possiamo aspettarci due o tre milioni di tifosi in piazza». Aurelio De Laurentiis fa fatica pure lui a recitare fino in fondo il ruolo del presidente prudente, accorto alle parole, saggio fino all'eccesso. D'altronde, siamo o non siamo nel luogo dove iniziò la rivolta di Spartaco contro l'oppressione di Roma? E il Napoli sta per compiere una impresa simile, sia pure con il lieto fine: rompere una dittatura che dura dal 2001, l'ultimo scudetto vinto da una squadra (la Roma) diversa da Milan, Inter o Juventus che coincide con il ritorno al Sud del tricolore. Mica è poco. Sa che quei 15 punti di vantaggio che dividono il Napoli col resto del mondo sono una sorta di fossa delle Marianne. Incolmabile. Fa finta di essere scaramantico perché «appena abbiamo iniziato a parlare dei festeggiamenti abbiamo perso con la Lazio per colpa di una cagata di Kvara». Ma poi, parlando nel pomeriggio all'associazione della stampa estera a Roma, durante la premiazione di Osimhen, sveste i panni di chi teme «le iettature contro il Napoli» e si confessa: «Sono 33 anni che la città aspetta questo momento, ci sono generazioni di tifosi che non hanno mai vissuto questa eccitazione di vincere lo scudetto e non vedono l'ora. Sono quei tifosi che sono sprofondati nel fallimento e che in 19 anni, passo dopo passo, sono rinati in un percorso di crescita costante». Sorride, si gode ogni momento della lunga mattinata nella facoltà di Giurisprudenza dell'Università Vanvitelli, a Santa Maria Capua Vetere. Quando prende il microfono è accolto da un'ovazione. Al suo fianco Gravina e Casini, il gotha del calcio italiano.

È sereno, cordiale, disponibile. Non è vero che è uomo d'azienda che non riesce a gioire per un successo sul campo. Non è vero che non voleva vincere. «Il calcio è programmazione, noi abbiamo sempre fatto le cose come dovevano essere fatte», dice pensando a chi invece le regole economiche non le ha rispettate. «Io ai fondi non credo, sono la morte del calcio. In cinque anni vogliono rientrare degli investimenti. Ma non si gestiscono così le società. Spesso si fanno i paragoni con i campionati americani: ma qui i club sono tutti in rosso e partecipano ai campionati come se nulla fosse, negli Usa non sarebbe possibile». Lui può dare lezione a tutti: conti a posto e ora anche primo posto con vista sui quarti di Champions. «Io sono tifoso del Napoli da quando, negli anni 50, c'era il ciuccio e andava in processione: io ero dietro a tutti quei tifosi... Quando non mi si capiva, a Napoli, nel mondo del calcio, è perché ero molto concentrato a dare un'impostazione industriale da vera società per azioni. Tutti i miei colleghi venivano da una concezione del calcio vecchia, superata, obsoleta», racconta stavolta piccato e anche stufo nei confronti di chi lo considera poco legato al Napoli. Dà soddisfazioni agli studenti-tifosi presenti nell'aula della facoltà di Giurisprudenza per la presentazione della prima cattedra italiana dedicata alla Giuridicità delle regole del gioco del calcio. Parla del ko con la Lazio. Ovviamente, non ne fa alcun dramma. «Può essere pure considerata una sconfitta salutare. Altrimenti uno si siede, no? Poi Sarri è stato molto paraculo, invece di giocare come al solito alto si è coperto bloccando i terzini. E infine anche Kvaratskhelia ha fatto una stupidaggine dando quella palla a Vecino che ha fatto gol». La scaramanzia entra in gioco - ma per finta - quando gli chiedono se preferisce lo scudetto o la Champions. «Per carità, perché scegliere? Io mi auguro entrambi. Ma meglio non parlarne, porta sfortuna, le onde negative si propagano contro la napoletanità...». Lo fa per gioco, in realtà non ci crede. D'altronde con il sindaco Manfredi ha iniziato già a pianificare gli eventi in vista della festa per il ritorno del tricolore. Manda un messaggio anche ai tifosi del Bari, secondi in classifica. Altra medaglia sul petto di una programmazione calcistica che ha pochi rivali in questo momento in Italia. «Siamo secondi, se il Bari viene promosso verrà venduto. Ma a una condizione: lo lasceremo solo in mani sicure, come lo sono state le nostre. Al Bari abbiamo investito 100 milioni in quattro anni, non lo lascio in mani stolte che distruggono tutto».

Un obbligo, quella della cessione del club, in caso di salto in serie A.

Si scopre, ieri mattina a Santa Maria Capua Vetere, che De Laurentiis è favorevole «al tempo effettivo come nel basket, perché il recupero non deve essere arbitrario». Di quello che pensa di Uefa ed Eca, invece, si sa praticamente tutto a memoria («Bisogna togliere la cloche del comando pure alla Fifa»). Non gli piace né la Superlega su cui hanno lavorato Juventus, Real Madrid e Barcellona ma neppure la riforma della Champions della Uefa. E tutto, insiste, passa per la serie A. Che così com'è - e c'è il presidente della Lega ad ascoltarlo - proprio non va. Spiega: «Se ad un certo punto uno è convinto che ci siano due realtà calcistiche che per merito salgono in Serie A ma che nessuno vuole vedere perché magari fanno duemila spettatori in tv, è chiaro che quello mi crea un disagio». Tradotto: serve una serie A con sedici squadre. Lo spiega meglio, con una metafora automobilistica. «Il pilota di go-kart può arrivare in Formula 1, passando per la Formula 3. Ma la Formula 3 non può diventare una Formula 1. Il campionato di calcio, se comprende squadre che non hanno capacità economiche, è chiaro che diventa già forzato, sballato e compromesso e questo nessuno vuole capirlo», ha proseguito. Già, nessuno pensa a una riforma dei campionati. Almeno per ora.

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Segue con attenzione le richieste dei tifosi di avere maggiore libertà all'interno del Maradona. Ma fa capire che non c'è spazio per concessioni. Anzi, che il pugno duro contro i tifosi della Lazio che hanno lanciato petardi e fumogeni è la prova che chi sbaglia, paga. E paga un prezzo alto. «Io sono stato sempre dalla parte della legalità. C'è modo e modo di sostenere la squadra. In Inghilterra smontarono gli stadi per due anni, allontanando gli hooligans hanno riempito di famiglie, da noi invece li fanno alzare i bambini, dicono che il posto è il loro e devono andare via. È diseducativo». Infatti, molto è cambiato negli ultimi anni. «Noi facciamo le cose serie, proiettate nel futuro. Dal questore ricevo le notizie che hanno daspato uno per droga, uno per una pistola carica, altri per scavalcamenti per rubare i posti, così non ci si comporta. Dobbiamo riportare la legalità, lo sport è emblema dei giovani e deve essere lo specchio della legalità». 

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