Streaming, crisi e ripartenza: le piattaforme fanno fronte alla flessione di abbonamenti puntando sulla pubblicità

Linea dura contro la condivisione delle password. Strategia vincente, ma in futuro potrebbero pesare i rincari

Streaming, crisi e ripartenza: le piattaforme fanno fronte alla flessione di abbonamenti puntando sulla pubblicità
di Raffaele D'Ettorre
Mercoledì 14 Febbraio 2024, 10:32 - Ultimo agg. 15 Febbraio, 07:43
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«Lo streaming è diventato la criptovaluta del business dell’intrattenimento».

A inchiodare al muro tutte le contraddizioni del nuovo paradigma digitale dello showbiz è il regista Steven Soderbergh, che da quel 1989 in cui si presentò sull’uscio di Hollywood con la sua prima Palma d’oro (Sesso, bugie e videotape) quel mondo l’ha vissuto, l’ha respirato, spesso l’ha criticato. E a un certo punto l’ha visto cambiare. «Oggi l’intero settore si è spostato da un mondo di economia newtoniana a un mondo di economia quantistica – racconta il regista a Vulture Magazine – dove puoi avere un successo enorme sulla tua piattaforma, ma quel successo non si traduce in entrate». Tutto ha inizio il 16 gennaio 2007: la californiana Netflix entra a gamba tesa nel mercato dell’intrattenimento, lo stravolge e lo reinventa, condensando l’industria cinematografica in una app. Gli studios, sedotti dall’inarrestabile scalata del colosso di Reed Hastings, triplicano gli investimenti in serie tv originali (210 nel 2009, oggi sono più di 600). Sbarca a Hollywood il modello Silicon Valley. Un modello dove l’imperativo non è più fare utili ma crescere a ogni costo. Il settore inizia a spendere soldi senza più preoccuparsi di fare soldi. Come nel mercato delle cripto, lo showbiz diventa una scommessa. Il risveglio, devastante, arriva nel 2022, quando Netflix (oggi leader indiscusso di quel mercato con 260 milioni di utenti mondiali, 9 milioni in Italia; il competitor più vicino è Disney+ con 150 milioni di utenti) sperimenta la prima contrazione dopo anni di crescita, -970mila utenti a luglio 2022. Con conseguente panico degli investitori (50 miliardi di dollari spariscono a Wall Street in una sola giornata), più un bastimento carico di profeti pronti a seppellire per sempre quel modello economico. No, non era la fine dello streaming allora e non lo è nemmeno oggi che le piattaforme si stanno ancora riprendendo dal colpo.

IL CAMBIAMENTO

 Ma qualcosa da allora è cambiato.

Intanto la fiducia delle famiglie, provate da uno dei peggiori tassi di inflazione degli ultimi 40 anni, che le sta spingendo a tagliare le spese non essenziali. Nei primi tre trimestri del 2023 cresce fino al 6,3% il numero di americani che abbandonano uno o più servizi streaming. Un quarto degli abbonati Usa cancella almeno tre sottoscrizioni in due anni. Qui da noi la flessione è più contenuta (15,3 milioni gli abbonati ai servizi streaming in Italia a settembre 2023, -23mila rispetto all’anno precedente, dati AgCom), ma il tempo di navigazione scende del 9,4% in un anno. Crolla l’engagement e si attivano gli anticorpi. Netflix adotta la linea dura sul password-sharing, che consentiva agli abbonati di condividere le password con amici e familiari: tanti spettatori, un solo abbonamento. La strategia funziona: il colosso californiano chiude l’ultima trimestrale 2023 con 13 milioni di nuovi iscritti. Un numero pericolosamente vicino al record storico del lockdown, quando il mondo intero era chiuso in casa a fare binge watching.

IL SEGNALE

 L’iniezione di nuovi account arriva in parte dai pentiti del password-sharing, in parte dall’introduzione di nuove formule di abbonamento a prezzi ridotti. A fine 2022 Netflix presenta il suo primo piano con annunci pubblicitari (5,99 euro contro i 12,99 del piano standard), a novembre Disney+ fa lo stesso, a gennaio tocca ad Amazon. Anche la strategia del discount ottiene i suoi primi risultati. Tra gli americani che sottoscrivono Disney+ a novembre, quasi il 60% opta per il piano con pubblicità. Lo stesso fanno 23 milioni di nuovi abbonati Netflix. Ma insieme alle promozioni arriva il parallelo rincaro (+33% dallo scorso autunno) degli altri piani tariffari, senza pubblicità. E gli utenti si chiedono se l’unica scelta possibile in tempo di crisi non sia quella tra cancellare l’abbonamento o abbracciare la pubblicità. È un segnale forte: i colossi dello streaming stanno chiudendo il tavolo delle scommesse e si preparano a incassare un decennio di fiches. Ma nel farlo stanno ignorando i tanti problemi strutturali emersi nel frattempo. Sulle piattaforme si rincorrono i progetti affossati in corsa (Netflix ha il record di serie tv abbandonate alla prima stagione), gli attori del mercato si moltiplicano fino a saturarlo mentre sui network cala l’ombra del secondo sciopero più lungo della storia di Hollywood: 11mila in piazza per combattere, più che ChatGPT, tutti i limiti di quella visione “quantistica” dello showbiz. Spingere sulla pubblicità potrebbe risolvere alcuni problemi, ma ne creerebbe di nuovi. Di sicuro aiuterebbe a ricucire il legame, reciso in quel lontano 2007, tra il numero di spettatori di una serie tv e il suo successo commerciale. Il nuovo flusso di entrate, sottratto a Wall Street, tornerebbe idealmente a circolare all’interno di un’industria che storicamente, grazie alla pubblicità, ha ricevuto più benefit da diritti e royalties che non dai pagamenti anticipati e dai bonus stagionali per serie la cui aspettativa di vita si è drasticamente ridotta con l’arrivo dello streaming. Ma anche gli inserzionisti vogliono risultati. E gli show di nicchia, che con la tv online hanno vissuto una decade strepitosa, rischiano di finire schiacciati dal nuovo corso pubblicitario, che gli utenti stanno accettando più per necessità che per scelta. Ma se i prezzi continueranno a salire ci metteranno poco a ricordarsi che i paladini dell’intrattenimento online, nati con la promessa di eliminare gli annunci e proiettarci verso una tv tutta nuova, alla fine per sopravvivere sono stati costretti a spezzare entrambi i patti. 

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