Salo Muller, il fisioterapista di Cruijff sopravvissuto all'orrore della Shoa

Salo Muller e Johan Cruijff
Salo Muller e Johan Cruijff
di Cristian Fuschetto
Mercoledì 27 Gennaio 2021, 09:21 - Ultimo agg. 09:45
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«Qualcuno non avrebbe potuto intervenire, sabotare i treni, far saltare i binari?» si domanda Salo Muller, ex fisioterapista dell’Ajax di Cruiff, giornalista, scrittore, ma prima ancora figlio dell’orrore indicibile della Shoah. Hannah Arendt ebbe la lucidità sovrumana di individuare le caratteristiche di questa indicibilità già nel 1951, quando della pianificazione e dell’esecuzione dello sterminio di un popolo e, con esso, di tutte le persone giudicate indegne di vivere, grandissima parte dell’opinione pubblica non aveva ancora maturato alcuna consapevolezza. Né tantomeno pareva interessata a farlo. A pochissimi anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale, dalla sconfitta del nazismo, dall’apertura dei cancelli di Auschwitz e di tutti gli altri luoghi deputati alla “produzione in massa di cadaveri”, Arendt è già in grado di cogliere i limiti di qualsiasi tentativo di raccontare il male radicale e insopportabilmente banale perpetrato nei campi di sterminio. «Il vero orrore dei campi di concentramento e di sterminio – scrive la Arendt ne Le origini del totalitarismo – sta nel fatto che gli internati, anche se per caso riescono a rimanere in vita, sono tagliati fuori dal mondo dei vivi più efficacemente che se fossero morti, perché il terrore impone l’oblio. Qui l’omicidio è impersonale quanto lo schiacciamento di una zanzara». Ed è per questo che «Non ci sono paralleli con la vita nei campi di concentramento. Il suo orrore non può mai essere percepito dall’immaginazione, perché rimane al di fuori della vita e della morte. Esso non può mai essere descritto, perché il superstite ritorna al mondo dei vivi che gli impedisce di credere completamente nelle sue esperienze passate. È come se egli avesse da raccontare la storia di un altro pianeta, perché gli internati sono simili a individui mai nati nel mondo dei vivi, dove nessuno presumibilmente dovrebbe sapere se essi sono ancora in vita o già morti».

Succede ogni volta che proviamo a immaginare Auschwitz, Mauthausen, Birkenau, ogni volta che ci sforziamo di comprenderne l’accaduto siamo di fronte alla sensazione di ascoltare la storia di un altro pianeta. Qualcosa del genere si prova anche nel leggere di chi in quei campi non c’è stato, o almeno non c’è stato fisicamente ma ci ha comunque lasciato l’anima, come Salo Muller. Nato ad Amsterdam il 29 Febbraio 1936, Salo ricorda quel sabato mattina del novembre 1942 quando mamma Lena gli dà un bacio in fronte prima che vada a scuola e gli dice: "A stasera e fai il bravo". «A sei anni quelle parole sono i titoli di coda della vita serena di Salo Muller – scrive Maria Luisa Colledani nella prefazione al volume appena tradotto in italiano per i tipi del Sole 24 Ore – e sono il titolo del libro in cui racconta il suo inferno (A stasera e fai l bravo. La memoria della Shoah nella storia dell’ex fisioterapista dell’Ajax), dai contorni non ancora definiti a quell’età, e forse per questo ancora più doloroso”.

Mamma Lena e papà Louis sono vittime di uno dei tanti rastrellamenti voluti dalle SS in Olanda: finiscono deportati ad Auschwitz e Salo resta orfano. La resistenza olandese lo nasconde, lo aiuta a trovare alloggi di fortuna e famiglie che si fanno carico di lui. 

In Olanda la deportazione degli ebrei cominciò alla fine del febbraio 1941 e durò fino al settembre 1944. Per la maggior parte le vittime furono imprigionate nel campo di Westerbork, nella provincia di Drenthe, per poi essere deportate nei campi di sterminio. Il primo convoglio di deportati partì il 15 luglio 1942. In tutto furono organizzati 51 trasferimenti ad Auschwitz. In genere partivano due treni a settimana, ciascuno con circa mille ebrei. «Tra tutte quelle persone ridotte alla miseria e alla disperazione – scrive Salo Muller – c’erano anche i miei genitori e parenti. Avranno pensato ancora a me? Che cosa sarà passato loro per la testa? Ogni giorno mi viene un nodo alla gola a ripensarci. Immaginate di perdere il vostro unico figlio, di doverlo abbandonare a sé stesso. Probabilmente erano contenti che non io dovessi vivere quegli orrori».

Salo racconta la sua storia, quella di chi non è stato imprigionato nei campi ma che al tempo stesso è un sopravvissuto ai campi. «Mi ritrovavo spesso a pensare: perché sono sopravvissuto? Ne sono davvero felice? In vecchie fotografie scattate a feste di famiglia avevo contato fino a ottanta parenti. Eccetto per qualcuno, ero rimasto solo. Vivevo ogni giorno come un sacrificio». Sono parole di chi racconta cose di un altro pianeta, di chi per quanto sia riuscito a radicarsi nel mondo sente quasi di non meritare un posto nel mondo. Le pagine di Muller sono istantanee che raccontano come pagine di cronaca la progressiva ostracizzazione degli ebrei da una comunità (la percentuale di ebrei olandesi eliminati dai tedeschi, quasi l’80% del totale, è la più alta nell’intera Europa occidentale), la spoliazione inesorabile dei loro averi e della loro stessa personalità. Nei campi, sottolinea ancora la Arendt, donne e uomini vengono trasformati in “cadaveri viventi” attraverso la doppia privazione della personalità giuridica (si è nei campi di sterminio non perché si è fatto qualcosa contro la legge, essere riconosciuti come trasgressori sarebbe comunque un modo per essere riconosciuti come soggetti di diritto, gli ebrei sono nei campi per la semplice ragione di essere quello che sono), e della personalità morale (ad Auschwitz viene meno la possibilità di una coscienza, quando – ricorda la Arendt – una madre è costretta a scegliere quale dei tre figli deve essere ucciso, «l’alternativa non è più tra bene e male, ma tra assassinio e assassinio»).

In quella temperie Salo resta orfano senza accorgersene, i pollai sono i suoi nascondigli e gli armadi spesso diventano i suoi letti. «Provo a immaginarli a Westerbork, all’inizio del 1943. Sono là da dieci settimane. Vengono spediti ad Auschwitz, a bordo di un carro bestiame, insieme a un migliaio di altre persone. Per il semplice fatto che erano ebrei. Nella mente mi affiorano ancora una volta le stesse domande: qualcuno non avrebbe potuto intervenire, sabotare i treni, far saltare i binari?». Avrebbero potuto, ma non lo hanno fatto. Anzi, avremmo potuto ma non lo abbiamo fatto.

Nel 2014 Salo ha intrapreso la sua battaglia contro la Nederlandse Spoorwegen (NS), la società olandese dei trasporti ferroviari, a cui ha chiesto e ottenuto un risarcimento per i sopravvissuti e gli eredi delle vittime della Shoah. Ora che la sua battaglia è diventata un nuovo libro, Mijn gevecht met de Nederlandse Spoorwegen, la volontà è di estendere la richiesta alle ferrovie tedesche. I suoi pensieri, sottolinea Colledani, sono irrevocabili e senza appello: «Do la colpa alla compagnia ferroviaria per aver trasportato consapevolmente ebrei nei campi di concentramento e per aver ucciso quegli ebrei in modo terribile. Non posso arrendermi perché questo mi fa male ogni giorno. Ogni giorno ci penso e mi fa male. E voglio che quel dolore finalmente passi».

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