Moda e sostenibilità, il costo ambientale del fast fashion

«L’intenzione iniziale del fast fashion rispondeva ad una esigenza reale, recepire in tempi brevi delle tendenze last minute per i consumatori finali e aggiornare l’offerta presso i negozi»

Moda e sostenibilità, il costo ambientale del fast fashion
Moda e sostenibilità, il costo ambientale del fast fashion
di Clara Lacorte
Martedì 27 Giugno 2023, 16:10
5 Minuti di Lettura

Belli, economici ed incredibilmente simili ai capi d’alta moda e brand più popolari, ma anche particolarmente dannosi per la nostra salute e soprattutto per l’ambiente. Questo è il fast fashion ed i capi che, ad oggi, popolano gli armadi della maggior parte di noi. Fino a dieci o venti anni fa era impensabile avere accesso a capi low cost di ogni genere, taglia e modello con un semplice click attraverso le piattaforme più famose come Wish o, ben più popolare, il colosso cinese Shein. Riempire il proprio armadio di capi sempre nuovi ed al passo con le ultime tendenze non è mai stato così facile e veloce.

Ma è davvero così semplice?
La realtà è ben diversa da quella che si può immaginare ed a pagare il prezzo più alto di tali acquisti è certamente l’ambiente. Ciò che la maggior parte degli acquirenti non sa è che acquistare da siti web che promuovono il fast fashion non è altro che assecondare il lavoro sottopagato, lo smaltimento di rifiuti o tinte particolarmente tossiche oltre che lo sfruttamento minorile.

Tutti gli indumenti prodotti in aziende come quelle citate sopra, hanno come obiettivo fondamentale la produzione di ingenti quantità di capi nel minor tempo possibile con costi estremamente bassi. Come è possibile immaginare, raggiungere tali presupposti ed obiettivi di vendita rispettando l’ambiente ed i diritti dei lavoratori è assolutamente impensabile. Il risultato, chiaramente, si traduce in un bassissimo costo di mano d’opera con lavori sottopagati in condizioni ben diverse da quelle che si possono immaginare e che, più comunemente, associamo all’ambito dell’alta moda. Il più delle volte le tinte delle stoffe impiegate per la realizzazione dei capi sono assolutamente nocive e vengono respirate, per chi vi lavora a stretto contatto, da dipendenti che nulla hanno a che vedere con l’ambito della moda costretti a lavorare in vere e proprie discariche di materiali cancerogeni. A far funzionare l’intera macchina di iper-produzione di capi, oltre a materiali scadenti, entra in gioco anche la scelta da parte di tal colossi di appaltare la manodopera ad aziende operanti nei Paesi in via di sviluppo e, pertanto, privi di regole che disciplinano in materia di diritti e doveri del lavoratore, oltre che ad un evidente stipendio assegnato al dipendente ben diverso da quello che potremmo avere in Paesi maggiormente industrializzati.

Dal lato del consumatore però la questione cambia. I prezzi, estremamente bassi, danno la possibilità a chiunque di acquistare aumentando quindi il rischio che tali materiali possano danneggiare l’ambiente. Il poter accedere a tale possibilità innesca, nell’ acquirente, una vera e propria dipendenza per lo shopping creando un circolo vizioso certamente difficile da correggere. La continua richiesta di capi non fa che aumentare la necessità di produzione.

Video

«L’intenzione iniziale del fast fashion rispondeva ad una esigenza reale, ovvero quella di recepire in tempi brevi delle tendenze last minute per i consumatori finali e aggiornare l’offerta presso i negozi. Purtroppo nel corso del vent’anni lo sviluppo di grosse catene hanno sconvolto questa idea iniziale ed hanno ritenuto utile concentrando la loro offerta tutta sul fast fashion. Questo significa da un lato depauperare il prodotto stesso, dall’altro depauperare i prodotti dei materiali sempre più poveri e, terzo, ciò implica anche nella filiera produttiva i laboratori e le fabbriche a lavorare con margini ridottissimi con il conseguente sfruttamento dei lavoratori» spiega Andrea Doroldi, fashion business development.

Il fatto di acquistare presso questi grandi colossi della moda del fast fashion, implica inevitabilmente una scarsa attenzione per gli acquirenti nei confronti della moda di grande qualità ed in particolare per il made in Italy che, certamente, soffre in parte per le nuove esigenze presenti sul mercato. Alla base di tutto vi è un semplice ragionamento: perché spendere cifre alte o medio-alte per acquistare un capo che possono trovare esattamente uguale (perlopiù nella struttura) a basso costo? Questa è la logica che, purtroppo, risiede nella scelta da parte degli acquirenti di fare shopping in colossi come Shein o Zara.

«Non c’è una competizione diretta tra fast fashion e luxury brand. Partono da presupposti diversi e con obiettivi diversi: il fast fashion ha prezzi bassi ed emissione continua di capi sul mercato, nel caso del luxury brand abbiamo prezzi molto diversi. Spesso il consumatore mischia capi fast fashion con accessori di lusso per dare una completezza al proprio look senza spendere cifre eccessive» afferma Fabrizio Milan ex Vice Presidente per i brand Calvin Klein e Tommy Hilfiger.

Per ovviare alle evidenti problematiche derivanti dal fast fashion l’aspetto cultura rimane quanto mai fondamentale. Ad utilizzare questo tipo di capi a basso costo e con materiali decisamente scadenti sono soprattutto i più giovani, spinti dall’esigenza di mostrarsi comprano capi che magari non indosseranno mai. Sensibilizzare i più giovani, e non solo, sulla tematica ambientale e sui danni che l’acquisto spasmodico di questi capi possono portare è quanto mai necessari per far sì che vi sia un’inversione di tale tendenza. «Quello della sostenibilità è un problema che riguarda anche la moda ma è molto più ampio. Ciò che funziona è ancora una volta l’educazione e la cultura. D’altronde la moda è da sempre stata un fatto cultura e adesso ha questo aspetto che deve essere spiegato anche sotto questo punto di vista ai consumatori finali. Bisogna tornare all’apprezzamento dei materiali» spiga Fabrizio Milan. «Bisogna invertire la tendenza al consumo isterico ed eccessivo tornando all’esigenza quanto più legittima di aggiornare una legittima parte dell’offerta» conclude Andrea Doroldi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA