Faida di Ponticelli, fermato il boss De Micco

Faida di Ponticelli, fermato il boss De Micco
di Luigi Sabino
Lunedì 4 Aprile 2022, 14:45 - Ultimo agg. 5 Aprile, 14:39
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Omicidio, violenza privata, possesso di armi e ricettazione. Sono questi i reati di cui rispondono, a vario titolo, le sei persone fermate questa notte nel corso di un blitz interforze nel quartiere Ponticelli. In manette alcuni dei responsabili dell’omicidio di Carmine D’Onofrio, il 23enne trucidato lo scorso mese di ottobre dinanzi agli occhi della compagna. Tra i destinatari del provvedimento anche il boss Marco De Micco, accusato di aver deliberato la morte del ragazzo sospettato di essere uno degli autori dell’attentato dinamitardo avvenuto, alcuni giorni prima, nei pressi dell’abitazione dello stesso De Micco, in via Piscettaro.

Secondo la ricostruzione degli investigatori la morte di D’Onofrio, figlio illegittimo di un altro ras di Ponticelli, Giuseppe De Luca Bossa, nemico dei De Micco, sarebbe stata decisa non solo per il legame di parentela ma anche perché la vittima sarebbe stata direttamente coinvolta nell’attentato contro la casa di De Micco. Una notizia questa che il boss avrebbe appreso dalla voce di Giovanni Mignano, esponente della cosca De Luca Bossa-Minichini che fu sequestrato dai suoi uomini e portato al suo cospetto per essere interrogato.

Picchiato e minacciato, Mignano cede dinanzi alla furia dei suoi rapitori e fa un nome: Carmine. Per De Micco e i suoi si tratta di D’Onofrio. 

L’ordine del padrino di San Rocco è perentorio, il ragazzo va trovato e ucciso per vendicare l’onta subita. Le ricerche partono subito ma di D’Onofrio, che nel frattempo si sarebbe nascosto in un luogo sicuro, non c’è traccia. Tuttavia, questo non ferma il desiderio di vendetta. De Micco, secondo la ricostruzione degli investigatori, organizza insieme ai suoi sodali l’esecuzione nei minimi dettagli. L’incarico viene affidato a una batteria composta da Giovanni Palumbo, Ciro Ricci, già responsabili del sequestro di Mignano, Ferdinando Viscovo, Salvatore Alfuso e Giuseppe Russo junior. Sono loro, si legge nel decreto di fermo, che si occupano non solo di localizzare la vittima ma anche di fornire l’auto agli autori materiali e, dopo l’esecuzione dell’omicidio, di assicurare la fuga dei sicari.

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Quello, però, che gli indagati non possono sospettare è che i loro piani sono scoperti dagli investigatori che, già da tempo, avevano messo sotto sorveglianza l’abitazione di via Piscettaro e vi avevano installato delle microspie. Le conversazioni tra il boss e i suoi gregari sono intercettate compreso il brutale interrogatorio di Mignano, interrogatorio cui avrebbe partecipato anche la madre di De Micco per cui, almeno inizialmente era stato disposto il fermo, poi revocato. È la donna a esortare l’uomo del sodalizio rivale a indicare i complici sottolineando che, in caso contrario, «avrebbe passato un guaio». 

 

Altrettanto utili sono state alcune intercettazioni a carico dei familiari della vittima grazie alle quali è stato possibile avere un profilo più chiaro di D’Onofrio. Il ragazzo, come si è scoperto, solo nei mesi precedenti alla sua morte aveva scoperto di essere figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa. Una rivelazione che, scrivono gli inquirenti, lo aveva spinto a stringere il legame con la famiglia paterna al punto da abbandonare le vecchie frequentazioni. Un legame sempre più forte al punto da compiere qualche lavoretto per i cugini, tutti pienamente inseriti nei contesti malavitosi della cosca. Un desiderio di conoscere le sue origini che, per gli investigatori, avrebbe trasformato un bravo ragazzo in un aspirante criminale, disposto anche a lanciare un ordigno contro l’abitazione dei rivali. Una trasformazione, però, che ha pagato a un prezzo carissimo.

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