Napoli. Carcere a vita
all'assassino del tatuatore

Napoli. Carcere a vita all'assassino del tatuatore
di Nico Falco
Mercoledì 21 Dicembre 2016, 08:43
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Ergastolo. La Corte d'Assise d'Appello ha riconosciuto Vincenzo Russo colpevole dell'omicidio di Gianluca Cimminiello, il giovane tatuatore ucciso nel 2010 da emissari degli Scissionisti perché aveva osato reagire a una «punizione». La decisione dei giudici arriva dopo la pronuncia della Cassazione del marzo scorso, quando la sentenza di ergastolo della Corte di Appello a carico dell'unico imputato per quelle omicidio venne annullata. A quel processo aveva preso parte anche il Comune di Napoli, rappresentato dall'assessore Alessandra Clemente, come parte civile. Nel nuovo processo sono stati ascoltati oltre dieci collaboratori di Giustizia ed è stata nuovamente sentita la supertestimone, Anna Vezzi, fidanzata di Gianluca, che si trovava nello studio del ragazzo a Casavatore al momento dell'agguato. Parallelamente continua, verso la sentenza di primo grado, davanti alla Corte d'Assise, l'altro processo che vede alla sbarra Raffaele Aprea e Arcangelo Abete, ritenuti responsabili di aver accompagnato il killer e di essere il mandante dell'omicidio. Arriva così alle battute conclusive una storiaccia in cui un giovane di 31 anni viene barbaramente ucciso per dissidi nati da invidie professionali e sfociate in un regolamento di conti con la malavita organizzata. Ma Gianluca Cimminiello, noto come «Zendark» nel mondo dei tatuaggi, non aveva mai avuto a che fare con la camorra. È questa la verità sostenuta fin dal primo momento da chi lo conosceva e che man mano sta venendo fuori dai processi, una vittima innocente, non finita per sbaglio sulla traiettoria di una pallottola vagante ma uccisa intenzionalmente.


Tutto comincia nel 2010, quando Gianluca pubblica sul suo profilo Facebook una fotografia che lo ritrae insieme a Ezequiel Lavezzi. Fu scattata nei pressi dello stadio ma modificata mettendo come sfondo il suo laboratorio di Casavatore. Una mossa di marketing: nel periodo in cui i calciatori dettano stile, farsi tatuare dallo stesso artista che ha disegnato sul corpo di uno degli idoli dei tifosi è un vanto. Quella fotografia, però, suscita subito invidie. In particolare, crea contrasti con un collega del ragazzo. Qualche giorno dopo quattro persone si presentano nello studio di Cimminiello a chiedergli conto di quello scatto. Sono emissari del clan Amato-Pagano, tra loro ci sono parenti dei vertici del gruppo criminale.


Lo aggrediscono ma il giovane, esperto di arti marziali, si difende. Colpisce uno di loro, gli altri scappano. Il 2 febbraio 2010 nel laboratorio si presenta un altro giovane. Con una scusa riesce a far uscire Gianluca fuori, poi gli spara. Due colpi, a distanza ravvicinata. Per gli inquirenti l'ordine era partito da Milano, dove stava scontando i domiciliari il boss Arcangelo Abete, ritenuto mandante sulla scorta delle dichiarazioni di alcuni testimoni di Giustizia che hanno indicato Raffaele Aprea come organizzatore. La dinamica dell'omicidio venne ricostruita grazie alle dichiarazioni della Vizzi, mentre le indagini sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli e svolte dai carabinieri di Castello di Cisterna; nell'ottobre 2015 furono eseguite le misure cautelari a carico di Abete, Aprea e Russo. «Aspettiamo la Cassazione, ma finalmente si sta stabilendo la verità, quella stessa che noi conosciamo da 7 anni. Anche se adesso ci aspettiamo che venga fuori tutto, e che Gianluca venga riconosciuto ufficialmente come vittima della camorra perché, oltre alla questione della foto con Lavezzi, il vero movente è che mio fratello il 30 gennaio 2010 ha reagito a un'aggressione da parte di camorristi». Così commenta Susy Cimminiello, sorella del ragazzo ucciso.


«Questa storia, - continua la donna, - fa capire che chiunque può finire ammazzato dalla malavita anche non essendone coinvolto.
Gianluca non tornerà indietro e il nostro dolore sarà anche quello un ergastolo per noi, ma questa sentenza ci dà la forza di andare avanti, di dire ai nostri figli che quella della criminalità non è la strada giusta e che chi sbaglia paga».
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