Clan Zullo, aggravamento in Appello:
«Al boss lettere da personaggi mafiosi»

Clan Zullo, aggravamento in Appello: «Al boss lettere da personaggi mafiosi»
di Nicola Sorrentino
Martedì 28 Settembre 2021, 06:05 - Ultimo agg. 17:21
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«L’associazione capeggiata da Dante Zullo possiede i requisiti propri di un gruppo criminale mafioso». Così la Corte d’appello motiva e riconosce l’associazione mafiosa, ribaltando la sentenza di primo grado sulla compagine di Zullo. E riconoscendo l’accordo che vi sarebbe stato tra il primo e l’ex vicesindaco Enrico Polichetti, assolto e poi condannato a 5 anni di carcere. La figura del “boss” Zullo, condannato a 24 anni, «possedeva la forza intimidatrice e costrittiva, non per particolari attributi di carattere personale ma soprattutto per quella caratura criminale che gli derivava dall’appartenenza a pregresse consorterie camorristiche, come emerge dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Gerardo Adinolfi, Bruno Gulmo e Giovanni Sorrentino». Quest’ultimo, ritenuto attendibile e credibile in senso oggettivo, aveva aperto uno squarcio sulle attività del clan. Undici le condanne aumentate rispetto al primo grado, dopo il ricorso dell’Antimafia. La Corte rimarca le «contraddizioni» nella sentenza di Nocera: «Appare ostico se non incomprensibile ritenere che le condotte intimidatorie non rechino l’aspetto tipico della minaccia mafiosa. L’imponenza dei precedenti criminali di Zullo e la sua storica appartenenza agli ambienti della criminalità organizzata, a partire dall’epoca cutoliana, non era di certo ignota alla popolazione residente». 

IL DETTAGLIO
Da qui vengono citate le lettere inviate a Zullo in carcere a firma di esponenti di clan mafiosi, la frequentazione con esponenti criminali all’esterno, la «completa assenza di denunce e di qualsiasi forma di collaborazione da parte di coloro che le subivano», così come la paura delle vittime.

Per il gruppo c’era «un rispetto territoriale, imposto da Zullo ai consociati». E l’accordo di voti in cambio di favori tra il primo ed Enrico Polichetti sarebbe stato provato: «Zullo era il riconosciuto “numero uno” sul territorio di Cava e questa definizione, data da due collaboratori di giustizia, è da sola in grado, e con massima efficacia dimostrativa, di descrivere quale fosse la sua fama criminale nel contesto cittadino e quale fosse la consapevolezza in capo alla collettività e, ancor più, in capo ad un soggetto, quale Polichetti, che da almeno 14 anni (alla data del 2015) era attivamente presente nella scena politica cittadina, ricoprendo incarichi istituzionali elettivi e, dunque, per ragione del suo mandato elettorale, aveva ampie possibilità di relazione e di conoscenza sulle presenze e sugli accadimenti della città». I giudici richiamano le parole del collaboratore Sorrentino: «Antonio Santoriello prese la parola riferendo a Dante Zullo che Polichetti aveva bisogno di voti, che quest’ultimo faceva presente agli astanti che se fosse stato eletto si sarebbe prodigato per costituire una cooperativa di ex detenuti da impiegare in lavori come il giardinaggio nel Comune di Cava e che a quel punto Zullo affermava: «tu pensa a salire, poi non ti preoccupare, facciamo tutto quello che si deve fare». Per i giudici il riscontro ci fu tre anni dopo, quando un dirigente del Comune confermò il tentativo «di Polichetti di attuazione dell’originario progetto». E se è «irrilevante» che i voti nei luoghi di residenza di Zullo per Polichetti non incrementarono, non lo è la «pluralità di numeri di componenti del gruppo capeggiato da Zullo» sulla rubrica del telefono di Polichetti e la foto che ritrae il primo e Santoriello soli, davanti ad una torta sulla quale veniva riportato il numero complessivo di voti«. Ora la Cassazione, con i ricorsi della difesa.

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