Hikikomori: i pericoli del prolungato isolamento sociale

«Più un soggetto si isola per ricercare protezione dall'ansia sociale, più perde le competenze sociali e tenderà perciò a isolarsi ancora di più»

Hikikomori: i pericoli del prolungato isolamento sociale
Hikikomori: i pericoli del prolungato isolamento sociale
di Roberta Avallone
Martedì 28 Marzo 2023, 12:00 - Ultimo agg. 29 Marzo, 15:45
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Hikikomori è un termine giapponese che può essere tradotto come “stare in disparte”, coniato dallo psichiatra Tamaki Saiko. Esso fa riferimento a un fenomeno che colpisce specialmente i giovani tra i 14 e i 30 anni, principalmente maschi, che si isolano dalla vita sociale, allontanando non solo amici e conoscenti ma anche gli stessi genitori. In particolare, un soggetto può essere definito hikikomori quando l'esclusione sociale volontaria sussiste per più di sei mesi.

Il fenomeno era già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni Ottanta, mentre è negli anni duemila che ha cominciato a diffondersi anche negli Stati Uniti e in Europa e, negli ultimi anni, l'attenzione circa la sindrome è giunta anche in Italia. Dalle indagini ufficiali condotte dal governo giapponese, si stima che i casi siano di oltre un milione, mentre nel nostro Paese si ritiene verosimile che i casi siano circa 100mila. 

Ma quali sono i fattori che spingono un soggetto a isolarsi? «L'hikikomori - dichiara lo psicologo Marco Crepaldi, presidente fondatore di Hikikomori Italia - si isola per motivi legati all'ansia sociale, quindi alla difficoltà di reggere il giudizio e lo sguardo altrui. L'hikikomori cerca riparo nella propria stanza per evitare di essere osservato e di conseguenza giudicato dagli altri, in particolare dai suoi coetanei. La scuola rappresenta infatti uno degli ambienti più ansiogeni per questi soggetti, che si rifugiano anche dai propri genitori attraverso la chiusura nella loro camera da letto. In questo luogo l'hikikomori cerca una fuga tramite Internet, i videogiochi e i social dove può esprimere la propria personalità e le proprie passioni senza dover necessariamente usare immagini e nome personali, con il fine di annullare la propria identità pubblica e vivere nell'anonimato e nell'ombra della propria stanza». Il giornalista americano Michael Zielenziger, nel suo libro “Non voglio più vivere alla luce del sole. Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta”, dichiara che tuttavia solo il 10% degli hikikomori naviga su Internet, mentre il resto del tempo è impiegato leggendo oppure semplicemente oziando.

«Ci sono poi fattori legati a predisposizioni personali. Di solito si tratta di soggetti tendenzialmente timidi, introversi, che hanno una forte sensibilità nei confronti del giudizio sociale», aggiunge Crepaldi.

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Gli effetti di un prolungato isolamento sociale possono essere gravi nei soggetti affetti, poiché «più un soggetto si isola per ricercare protezione dall'ansia sociale, più perde le competenze sociali e tenderà perciò a isolarsi ancora di più. Inoltre, maggiore è la durata, maggiore è la paura del tempo perso, ovvero dell'essere rimasto indietro rispetto ai coetanei che hanno già concluso delle tappe della vita, come quelle che riguardano la sfera sentimentale, sessuale e sociale di realizzazione scolastica e lavorativa.

Più passa il tempo più questa condizione diventa pesante e difficilmente reversibile e più complessa si fa la fase di aggancio.

Questi soggetti infatti non accettano l'aiuto o perché si convincono che nessuno possa assisterli, oppure perché sono convinti che la loro condizione ideale sia all'interno della camera, nonostante il vivere chiusi in casa non li faccia stare bene e non li porti a essere indipendenti dai genitori. A queste si aggiungono le conseguenze psicopatologiche generali come aumento dell'ansia e depressione, della fobia sociale e del rischio suicidario, fino al distacco dalla realtà». Oltre all'isolamento sociale gli hikikomori soffrono infatti tipicamente di depressione, comportamenti ossessivo-compulsivi, come automisofobia (paura di essere sporchi) e manie di persecuzione. 

Qual è il modo migliore per evitare che il problema di cronicizzi? «Innanzitutto - continua Crepaldi - la tempistica di intervento è l'aspetto più fondamentale in assoluto. Se si riesce a intervenire nei primi tempi del ritiro, soprattutto nel periodo scolastico, si può bloccare la fobia del tempo perso e riportare il giovane in un percorso di vita canonico, che lo faccia percepire più simile agli altri, favorendo il reinserimento. Invece, se il soggetto rifiuta l'aiuto per tanto tempo ecco che i rischi che il problema sia già diventato patologico e abbia assunto una dimensione difficilmente reversibile sono più elevate. 

Consigliamo per questo motivo di non sottovalutare neanche i primi campanelli di allarme, come il rifiuto saltuario di andare a scuola, la tendenza a invertire il ritmo sonno veglia, l'abbandono delle attività competitive e le uscite con gli amici. Bisogna quindi intervenire in queste prime fasi del problema, cercando di attivare una rete supportiva, sia attraverso un intervento sistemico concentrato sul ragazzo a livello psicologico e psicoterapeutico, che sulla famiglia, nell'obiettivo di costruire l'alleanza genitori-figlio senza la quale è difficile che il giovane possa accettare aiuto», conclude Crepaldi.

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