Napoli-Salernitana, il gelo sullo stadio Maradona: «Ma i campioni dell'Italia saremo noi»

Lo spettacolo sugli spalti è poesia anche se il Napoli in campo non è più Superman

Gli azzurri salutano lo stadio Maradona
Gli azzurri salutano lo stadio Maradona
Giuseppe Taorminadi Pino Taormina
Lunedì 1 Maggio 2023, 08:03 - Ultimo agg. 16:00
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Scudetto. Ripetere per favore. Scudetto. «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell'Italia siamo noi». L'urlo resta strozzato in gola per qualche minuto dopo il gol di Dia («è stata la mano di Dia», urla qualche spiritoso al passaggio del regista premio Oscar Paolo Sorrentino) e quando si capisce che la partita è stregata e che il Napoli non conquisterà la certezza del titolo. «Vinceremo, vinceremo, vinceremo il tricolore». Certo, la storia non ha voluto questa data: il 30 aprile del 2023. Ne serve un'altra: magari davanti alla tv mercoledì sera o giovedì a Udine quando ci sarà un altro match point a disposizione. Senza dover aspettare nessuno. Ma che cosa sono altri tre giorni, o quattro ma anche una settimana rispetto ai trentatré anni nel limbo in attesa del grande giorno? Il gelo che cala sul Maradona dura poco, perché, sì, la delusione è palese perché la tavola era davvero apparecchiata per l'incoronazione. Non sarà come quella di Carlo III ma tutto era pronto al Maradona per mettere sulla testa del re la nuova corona della serie A. Ma non è un Maracanazo, Dia non è Ghiggia che nel 50 mandò in depressione l'intero popolo brasiliano. L'amarezza, lo stupore, anche la delusione, durano davvero poco. Qualcuno piange sul serio come se fosse davvero la fine del mondo (calcistico). La squadra sfila mestamente da una parte all'altra del terreno di gioco, con la gente con gli spalti che applaude ma come se avesse chissà quale ferita al cuore. Osimhen ha il capo chino. Ma lo scudetto, è praticamente fatto. Anzi, da ieri pomeriggio è persino più vicino. Che importa se non è successo nella domenica che tutti volevano doveva succedere (sennò il prefetto non avrebbe deciso per lo spostamento). Fissate qualche altra data sul calendario, perché tanto succederà in questa settimana. È lo stesso. O c'era chi aveva preso impegni? È come una fragola questo scudetto, che si teme di mordere per non consumarla, sapendo quanto prezioso sia il suo sapore. 

Al gol di testa di Olivera ecco che spunta l'amarcord: anche nel 1990 Baroni alla Lazio segnò con un colpo di testa, sia pure dalla porta opposta. Tre anni prima, al gol di Carnevale rispose un viola ai primi passi, tal Roberto Baggio. Finì 1-1 anche quel 10 maggio 1987 ma il punto bastava e avanzava. Il clima del Maradona è stato quello dei vecchi tempi: le bandiere, le sciarpe, in tanti con le maglia azzurre. Bambini, donne. Uno stadio a misura di famiglie. Cori, emozioni, ricordi. Perché 33 anni sono tantissimi. E bisogna passare quello che ha fatto il Napoli in questi decenni per sapere che gusto abbia la vittoria. No, questo pari di ieri non ha nulla a che fare con le batoste emotive e le figure dolorose del passato. È solo una festa rinviata, come succede altre volte. Le curve esplodono di passione: quelli della Curva B sono in vena di ricordi e di malinconia. E hanno ragione, è il giorno giusto. Onore ai capitani che «hanno indossato la fascia con passione e amore». E poi l'appello è alla vecchia guardia degli ultrà, quella che si è riappacificata con De Laurentiis: «Grazie a quelli di Gela, Martina Franca, Fermo, Sassari e così via».

Vero, giù il capello. 

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Dovevano succedere due cose: la stop della Lazio a Milano e la vittoria del Napoli. Ed è dunque una gara che inizia a mezzogiorno e mezza, come nei film western di una volta. Inizia con un primo falso allarme alle 12,43 perché l'Inter non è vero che ha segnato anche se il Maradona esplode di gioia. Alle 12,56 Mkhitaryan il gol lo fa ma poi viene annullato e l'urlo delle curve già piene con un paio di ore di anticipo deve fare ancora marcia indietro. Ci sono le maledizione ululate al cielo quando Felice sblocca il match. Eppure nessuno perde la speranza: la squadra fa riscaldamento quando arriva prima la rete di Lautaro e poi quella di Gosens. Evviva, i festeggiamenti possono iniziare. Ma i conti sono stati fatti senza la Salernitana che ha un presidente, Danilo Iervolino, che di questo club vuole fare un'altra eccellenza. A nessuno piace recitare la parte dell'agnello sacrificale e neppure alla squadra di Sousa. Il pubblico mette da parte la rivalità di campanile e pensa solo a incitare la squadra di casa che non brilla ma è lì che va all'assalto della muraglia salernitana. Il gol di Olivera è estasi pura: è fatta. Ma la squadra di cannibali, all'improvviso, torna sulla terra. Umana e fragile. Improvvisamente la squadra che ha strapazzato chiunque mostra la sua fragilità, quella che portò a fare 1-1 col Verona due anni fa o quella che si fece ribaltare per 3-2 dall'Empoli. Solo, che stavolta, a nessuno importa davvero che Dia salta Osimhen e poi si divora anche Juan Jesus e segna un gol da ricordare e raccontare ai nipotini. Spezza il cuore a una città già in festa, ma tanto è questione di poco, perché il cuore di tutti resta nello zucchero. Ragione e sentimento. Qualcuno non rinuncia neppure a sparare fuochi all'esterno dello stadio. Ma lo spettacolo sugli spalti è poesia anche se il Napoli in campo non è più Superman. E, rispetto a un mese fa, va in confusione quando deve risalire la corrente. È un Superman insicuro a cui, forse, hanno rubato i vestiti. Ma tanto, può pure non indossarli più. Lo scudetto arriverà lo stesso. 

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