Rudi Garcia allenatore Napoli: così racconta il suo calcio

L'autobiografia «Tutte le strade portano a Roma»

Rudi Garcia tra i tifosi azzurri
Rudi Garcia tra i tifosi azzurri
di Francesco De Luca
Giovedì 22 Giugno 2023, 07:00 - Ultimo agg. 23 Giugno, 07:25
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Nell'introduzione dell'autobiografia «Tutte le strade portano a Roma», scritta con Denis Chaumier e pubblicata da Mondadori nel 2014, Rudi Garcia usò l'espressione «mettere il piede sulla palla». Fermiamoci e ragioniamo. È quello che il nuovo allenatore del Napoli ha fatto spesso nella sua vita, superando così le angosce del mestiere, l'amarezza di vedere sfumare una grande chance (nel 2001 Tapie gli stava affidando la panchina del Marsiglia ma lui in autostrada, con una casuale telefonata, scoprì che era saltato tutto) e le belle occasioni colte al volo, Roma prima di Napoli. 

Non si sa quanti allenatori De Laurentiis abbia contattato oltre a Garcia: potrebbe non essere stato la prima scelta, ma questo - a contratto firmato - poco conta. Perché nell'estate di dieci anni fa era accaduto lo stesso. Rudi era in vacanza a Marrakesh quando il suo agente gli disse di fare un salto a Milano per incontrare i dirigenti della Roma. Sabatini, il ds, lo avvisò: «Non chiederò a lei di firmare». Pensava a Blanc. Poi Pallotta, il proprietario del club, gli offrì il contratto in un vertice a New York: «Voglio che lei sia l'Alex Ferguson della Roma». Monsieur Rudi si presentò ai giornalisti nel salone di Trigoria senza aver firmato quel contratto. Ma appunto poco importa essere una prima o una seconda scelta per chi ha dovuto lottare fin da ragazzo. Figlio di José, calciatore dilettante e poi allenatore, e di Raymonde, impiegata in una casa di cura, Rudi (stesso nome del ciclista tedesco Altig di cui era tifoso il padre) aveva cominciato a sognare nella piccola casa di Corbeil, a 40 chilometri di Parigi, di diventare un campione. Sul muro della sua stanza i poster dei Blues dell'epoca, poi le infinite partite a Subbuteo e nel cortile, quando imitava la voce del telecronista. «Ecco Garcia che attacca...». In quell'anno il suo idolo era Crujff. Maradona, quasi suo coetaneo, non era ancora esploso. 

La carriera da calciatore cominciata sotto lo sguardo del padre, che non faceva alcun favore al figlio. Anzi, lo inserì nella squadra dei più grandi affinché imparasse subito cosa fosse il sacrificio nella vita e nel calcio: più corsa, più contrasti duri. Il momento più felice della carriera al Lille, dove sarebbe poi tornato da allenatore, vincendo la Ligue 1 nel 2011. Da ricordare il gol al Psg al Parco dei Principi ma purtroppo anche l'aggressione con un colpo di forbice di un malato di mente all'uscita da un cinema. Rudi lasciò molto presto il campo, a 28 anni: un guaio fisico dopo l'altro, dalla schiena al ginocchio. Poco fortunato in campo e molto fuori, con una vittoria da 105mila franchi al casino. La prima esperienza da allenatore-calciatore nei dilettanti del Corbeil, dove impose regole che andavano al di là del campo di calcio.

In quell'area del Paese c'erano le prime forti tensioni tra francesi e immigrati. «Nella mia squadra tutti si prendevano in giro a vicenda per il colore della pelle, la religione e le tradizioni». C'è un passaggio dell'autobiografia su cui riflettere, perché a leggerlo adesso sembra quasi un riferimento a Napoli, la sua nuova casa: «Per molti giovani delle città, vittime del fallimento scolastico e della mancanza di prospettive, il calcio rappresenta una valvola di sfogo, una possibilità di riscatto. Un ascensore sociale sul quale è possibile salire, a condizione di avere un po' di talento e di lavorare. Lavorare molto. Il calcio resta, per loro, il trampolino principale verso un futuro migliore».

L'umile Rudi ha studiato tanto. Orgoglioso di essersi classificato quarto nel corso federale per allenatore, «non molto distante da Deschamps», l'uomo che avrebbe vinto da capitano e da ct il Mondiale. Studiò da vicino uno dei suoi predecessori sulla panchina del Napoli, Benitez, allora tecnico dal Valencia. «Il suo mentore era stato Arrigo Sacchi, dal quale apprese le basi del suo metodo, in particolare la difesa a zona e il pressing. Ma, come mi confidò in occasione di uno dei nostri numerosi scambi di opinione, "anche se sarà influenzato da uno o più allenatori, è tuttavia impossibile ripetere ciò che hanno fatto gli altri. Tocca a lei, e soltanto a lei, creare il suo sistema". Il suo metodo era un miscuglio di diverse culture: spagnola, brasiliana, italiana e anche inglese». Rudi - tanti anni prima di vincere col Lille, di divertire con la Roma e di sfiorare la finale Champions col Lione - aveva iniziato a studiare i suoi futuri colleghi. Ritagliava e collezionava le interviste degli allenatori su Èquipe e France Football. Una venerazione per Sacchi, che negli anni Ottanta sfidò il Napoli di Maradona e impose una nuova scuola calcistica. «Mi rendo conto oggi della sua portata in un campionato italiano assai meno sclerotizzato di quanto si dica, in cui la media dei gol a partita è in continuo aumento - scrisse nel 2014 - Mi chiedono spesso che tipo di calcio preferisco. Per spiegare la mia filosofia, rispondo immancabilmente così: al gol all'incrocio dei pali con tiro al volo da venti metri che esalta il talento individuale preferisco la rete segnata al termine di una lunga azione collettiva, nata da un movimento globale, con una serie di passaggi che coinvolgono più uomini, con tocchi di prima e, infine, il giocatore che smarca con generosità il suo compagno. La parola squadra esprime bene, secondo me, ciò che denota: una somma di giocatori e di personalità. È il legame da creare fra loro che trovo appassionante».

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Anni tra alti e bassi tra Digione e Le Mans, con una riflessione di cui fare sempre tesoro: «Bisogna saper restare lucidi nella tempesta, anche la più violenta, sapersi fermare due minuti per cercare di capire la situazione e analizzarla. La seconda è che è preferibile non scendere a patti con le idee altrui, se non si condividono, e mettere in pratica le proprie». Il trionfo al Lille fu preceduto dalla scomparsa del padre, il vero maestro di Rudi, che si spense prima che cominciasse una partita della squadra. Nella bara misero un pallone come gesto d'amore. Tanta strada percorsa fino a quel trionfo, partendo non da una panchina ma da un microfono. Perché la prima pay tv francese, Canal+, cercava un bordocampista e una voce tecnica per le telecronache e il giovane Rudi si propose per fare esperienza. «A pensare dove ero quindici anni fa...», commentò dopo lo scudetto di Francia. Quel tecnico colpì i dirigenti della Roma e riuscì a superare le diffidenze di alcuni giocatori («Avevano fatto circolare un video in cui suonavo la chitarra e cantavo Porompompero») grazie al lavoro sul campo e anche alla cena in una baita a 1400 metri durante il ritiro precampionato. «Adesso sì che siamo un vero gruppo». Difeso sempre da Rudi, che, prima di mettere la "chiesa al centro del villaggio" dopo una vittoria nel derby, aveva attaccato i tifosi contestatori: «Se fischiano sono laziali». L'Olimpico venne conquistato da quell'uomo che mostrò subito carattere («Niente acquisti senza la mia approvazione», aveva detto a Sabatini e al suo vice Massara) e creò un gruppo di ferro, in cui spiccavano non solo gli intoccabili Totti e De Rossi, ma anche De Sanctis, il portiere che aveva lasciato il Napoli dopo l'arrivo di Benitez. L'attuale ds della Salernitana è rimasto legato a Rudi, che ha ricordato nell'autobiografia: «Per venire alla Roma fu disposto anche a rinunciare a importanti premi per l'accesso alla Champions, che il Napoli non ebbe la decenza di riconoscergli come pattuito. L'acquisto fu di capitale importanza per il nostro ottimo inizio di stagione (10 vittorie di fila, ndr), sia in campo sia fuori, perché divenne uno dei leader dello spogliatoio». 

A Napoli ritroverà Simone Beccaccioli («Ottimo match analyst») e proseguirà con i riti prepartita. Rudi entra in una bolla mentre i calciatori sono impegnati nel riscaldamento, immagina situazioni di gioco e ripassa le posizioni sui calci piazzati. Dall'alto c'è un collaboratore che osserva e invia input mentre lui prende appunti a bordocampo. «Nessuno mi ha paracadutato dall'alto a Lille, a Roma o altrove. Sono un elettrone libero che, con lavoro e perseveranza, costanza nello sforzo e coraggio, determinazione, ascolto e pazienza, ha individuato il suo percorso e si è fatto strada. Non ho mai trovato la pappa pronta. Ho cercato di conquistare tutto questo con il cuore».

Monsieur Garcia, buon lavoro: la sua strada è ancora lunga. 

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